Firenze 27 Gennaio 2023

A novant’anni dava ancora prova di quella straordinaria capacità di studiare che lo aveva accompagnato tutta la vita. Non a caso la professoressa del ginnasio, al Parini, lo chiamava pe’ d’oca (in milanese, “pelle d’oca”) per la sua tendenza, quasi ossessiva, a impegnarsi, a ottenere dei risultati. Secchione, sì, ma Balilla mai, come teneva a sottolineare: «Vengo da una famiglia antifascista: mio padre durante la persecuzione razziale, nascose nel suo studio un ingegnere ebreo, salvandolo dalla deportazione». Stiamo parlando di Marcello Cesa-Bianchi (1926-2018), milanese doc, uno dei padri della psicologia in Italia, declinata nei vari aspetti, dalla psicologia clinica e quella del lavoro, da quella sociale alla psicogeriatria che lo portò a elaborare l’idea di una vecchiaia positiva. Un personaggio che non dobbiamo dimenticare. Laureato in Medicina a 23 anni, specializzato in Psicologia alla Cattolica di Padre Agostino Gemelli, a 25 e in Malattie Nervose e Mentali due anni dopo a Pavia, nel 1957, poco più che trentenne, ottenne l’insegnamento di Psicologia presso la Facoltà di Medicina della Statale di Milano e nel ’65 divenne Direttore dell’Istituto di Psicologia, appena creato, che diresse poi fino al 2001. Anni pionieristici vissuti in tandem con un altro grande, il fondatore della psicoanalisi in Italia, Cesare Musatti, scomparso nel 1989. Allora la Psicologia (siamo negli anni Sessanta), pur resuscitata dall’ostracismo cui l’aveva condannata il ventennio fascista, era vista dai medici come “il divertimento per l’ora del tè”, non in grado di incidere sui problemi per i quali il chirurgo e il farmacologo erano considerati determinanti. E che dire del decadimento mentale dell’anziano? Un processo funesto e irreversibile. Tutto da costruire, dunque, come era necessario regolarizzare la situazione, diventata insostenibile, delle scuole private di specializzazione in Psicoterapia, e introdurre strumenti di verifica di quest’ultima. Un lungo cammino, costellato di novità straordinarie: l’idea dell’invecchiamento attivo, dell’esistenza di un “disadattamento lavorativo”, di un percorso che va dalla mente al cervello e non viceversa, della possibilità che la psicologia fornisca al medico elementi chiave per gestire in modo più completo il rapporto col malato. Un percorso, lastricato di ricerche, pubblicazioni, libri. E di riconoscimenti; tra questi, nel 1985, la medaglia d’oro di benemerenza del Comune di Milano, l’Ambrogino. Lo incontrammo nel 2016 nel suo “storico” studio in Via Lanzone, a due passi dal Duomo, a Milano.

La facciata del Pio Albergo Trivulzio, storica casa di cura milanese destinata agli anziani

Professore, come le è venuta in mente l’idea, rivoluzionaria per l’epoca, dell’invecchiamento attivo?

«Correva l’anno 1951, avevo 25 anni, e per la tesi che dovevo preparare per la Scuola di specializzazione in Psicologia, la prima tesi in Italia sull’invecchiamento, cominciai a frequentare qui a Milano il Pio Albergo Trivulzio. Mi accorsi che gli anziani vivevano in una struttura isolante, che praticamente impediva l’interazione fra gli individui. Nessuno si interessava a questi problemi all’epoca. Le affermazioni condivise da tutti dipingevano il decadimento mentale come ineluttabile, progressivo e irreversibile, ma anche tutta la letteratura medica dell’epoca sposava questo pregiudizio. L’idea era che il cervello, dotato di un patrimonio di cellule nervose dato una volta per tutte, perdeva un tot di neuroni all’anno fino al suo disfacimento e non si teneva conto della grande variabilità individuale di questa perdita, legata alla storia personale, all’ambiente sociale, a quello familiare e all’istruzione. Nel corso della ricerca mi accorsi che gli anziani più vivaci intellettualmente erano lucidi e partecipi, pur in una situazione ambientale negativa. Allora cominciai a ipotizzare che la decadenza non fosse la norma, ma un’anomalia rispetto ad un invecchiamento in salute e in buon rapporto con il mondo. Certo, era un’idea ancora da verificare, soprattutto da dimostrare. La Psicologia positiva, poi, mi ha dato ragione sottolineando come accanto a interventi sulla sofferenza e sui disturbi, per mitigarli, è importante far leva sulle tendenze positive, sempre presenti, anche nelle persone che sembrano distrutte. E le Neuroscienze hanno sfatato il dogma del cervello immutabile».

Uno dei libri più conosciuti di Marcello Cesa-Bianchi, “Giovani per sempre?” pubblicato nel 1998 da Laterza

Come spiega, allora, che a distanza di anni da quest’inversione di rotta, il comune sentire sia ancora orientato verso il pregiudizio della vecchiaia come inevitabile declino?

«Il pregiudizio persiste perché ancora oggi la condizione in cui molti anziani si trovano a vivere è negativa: il pensionamento coatto, il disinteresse sociale, l’emarginazione, spesso anche lo sradicamento dalla propria casa, tutti fattori che favoriscono il disagio. È prevalsa, così, l’idea che i vecchi siano un problema (e il loro costante aumento di numero uno spauracchio) anziché una risorsa. Si può contrastare questa mentalità? Certamente, ne sono convinto. Bisogna diffondere nella popolazione le straordinarie scoperte delle Neuroscienze e le nuove analisi sociologiche che ci indicano come non si possa più parlare di epoche rigide dell’esistenza, ma, piuttosto, di ciclo di vita. Pensi al successo che hanno avuto le università della Terza Età; dimostra quanta vitalità mentale ci sia negli ultrasessantacinquenni di oggi. Poi essere anziani non significa caricarsi di patologie, i dati ci dicono che l’Italia è piena di vecchi sani».

Che cosa pensa dell’idea dell’uscita precoce dal mondo del lavoro, del pensionamento anticipato?

«Non sono favorevole. Secondo me, l’ideale sarebbe che una persona andasse in pensione quando si sente di farlo. Bisogna rendere possibile un impegno lavorativo ridotto, un part time, che valorizzi la professionalità, la competenza acquisita dai lavoratori anziani. Può sembrare un’utopia; smette di esserlo se si comincia a studiare la situazione attuale con questa diversa ottica. Per realizzare l’uscita volontaria e graduale ci vuole una legge quadro che, tenendo conto dei diritti acquisiti e dei problemi del mercato del lavoro, consenta questa flessibilità a tutti, anche ai lavoratori manuali, se lo vogliono, ovviamente.

La persona anziana non può continuare ad essere un cittadino di serie B (foto di Silvia)

Poi bisogna pensare al dopo, a eventuali occupazioni per i pensionati, non in modo schematico, massificato, ma valorizzando la loro esperienza e la loro creatività. L’idea o, meglio, l’ideologia che va assolutamente combattuta è che gli anziani occupino posti destinati ai giovani perché è mistificante; non si crea così nuova occupazione (non è mai successo) e si alimenta una conflittualità fra le generazioni che non porta da nessuna parte. Nonostante quello che vedo oggi, sono comunque ottimista: questa nuova mentalità emergerà, ma ci vorrà tanto tempo. Credo, anni. Nell’immediato sono pessimista. I politici e i sindacati, prima ancora della gente comune, devono capire che l’anziano è parte attiva della società, ma mi sembra che siano lontani da un’idea del genere, imprigionati nel conformismo. Almeno per ora».

Immagine di apertura: una bella immagine del professor Cesa-Bianchi in tarda età

Nato a Reggio Calabria, fiorentino di adozione, neuropsichiatra e geriatra. Laureato in Medicina presso l'università di Messina, dopo l’esperienza di medico condotto in Aspromonte, si è trasferito a Firenze presso l’Istituto di Gerontologia e Geriatria diretto dal professor Francesco Maria Antonini. Specializzato in Gerontologia e Geriatria, Malattie Nervose e Mentali, presso l'Ospedale I Fraticini di Firenze si è occupato del settore psicogeriatrico. È stato docente di psicogeriatria all'Università di Firenze. Ha collaborato al "Corriere della Sera" con una rubrica dedicata alla Geriatria.

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