Milano 26 Luglio 2021
Ci sono famiglie da cui non se ne esce vivi. E neanche morti. Marco Bellocchio l’aveva capito fin da ragazzo. Dal suo primo film, I pugni in tasca, girato a 26 anni, il regista piacentino ha iniziato quel percorso dentro il labirinto di affetti e rancori, segreti e bugie, racchiusi nelle spesse mura dell’antica casa di Bobbio, prigione e sanatorio da cui talora si evade ma solo per ritornare. La casa del padre, della madre, dei fratelli, delle zie. Dei sussurri e grida, delle paure e rimorsi. Della tenerezza anche, visto che, nonostante tutto e tutti, non passa estate che lì non ci si ritrovi. Forse per contarsi o forse per continuare a fare quei conti che non tornano mai.
E adesso, l’analisi cinematografica infinita di Bellocchio, splendido 82enne indenne ai segni del tempo, prosegue con questo Marx può aspettare, film documento applauditissimo a Cannes, da qualche giorno nelle sale. Nuovo, imperdibile, ritratto di famiglia che riunisce davanti a un tavolo, per una volta non quello di casa ma dello storico Circolo dell’Unione di Piacenza, quel che resta della famiglia, fratelli, sorelle, figli, nipoti. Festeggiare vari compleanni è il pretesto, il motivo vero, lo confessa lo stesso regista, è «stare insieme ancora una volta da vivi». Marco e i suoi fratelli, Alberto e Pier Giorgio. Vivi, tre su sei. L’assenza più pesante, mai colmata, è quella di Camillo, morto suicida il 27 dicembre 1968, a 29 anni. Camillo, il gemello di Marco, nato tre ore dopo di lui, venuto al mondo con fatica, già asfittico. L’angelo biondo, come era detto per i suoi tratti gentili. Il più bello della famiglia, il più fragile, malinconico, insicuro. Le foto in bianco e nero ci mostrano i due gemellini, Marco con piglio vivace, Camillo sognante. Marco più bravo a scuola, Camillo meno. Farà il geometra, sentenzia il padre, e quindi, essendo un lavoro “vero” rispetto a quelli “intellettuali” degli altri figli, “farà fortuna”.
La sola fortuna sarà di uscire di scena presto, di venire iscritto nell’albo di famiglia come una sorta di eroe romantico, forever young. Camillo se ne va subito dopo Natale dell’anno più rovente della storia del secondo ‘900, il ’68 della rivoluzione, dei figli contro i padri, della presa a sassate della cultura borghese.
Di quella rivolta generazionale Marco era uno degli alfieri, in prima linea con la bandiera dell’Unione dei Comunisti Italiani. Una militanza guardata con distacco da Camillo: «Marx può aspettare», le sue ultime parole rivolte al fratello. Un messaggio, il privato prima del politico, la cui verità affiorerà solo con il tempo. Il male oscuro di Camillo non poteva essere curato dalla rivoluzione. Forse il cinema chissà. In una lettera aveva chiesto a Marco, ormai regista affermato, di aiutarlo a entrare in quell’ambiente… Forse Marco non ha risposto, forse non ha fatto abbastanza. Gli altri fratelli, quelli dominanti, se ne andavano per il mondo inseguendo lotte e passioni, mentre lui restava lì, nella malsana quiete di Bobbio. Dove il Natale porta solitudine, più aspra disperazione. Finita la festa, Camillo si mette un cappio al collo e si lascia andare. «Ho fallito anche in amore», scrive nella lettera che lascia per giustificare l’ingiustificabile. Le ragioni vere se le porta con sé. Solo chi si uccide sa il perché di quel gesto. Agli altri non resta che fare congetture, cercare spiegazioni, addossarsi colpe.
Una storia privata che ci riguarda tutti. Tutti chiamati a fare i conti con i buchi neri del passato. Con lucido dolore, non esente da ironia e persino da squarci divertenti, Marco riprova mezzo secolo dopo a tirare le fila di quell’evento fatale. Un primo tentativo l’aveva fatto nell’82 con Gli occhi, la bocca, dove raccontava il rientro a casa alla notizia del tragedia, il tentativo di far passare il suicidio come un incidente.
Per salvaguardare la madre, ma non solo. Quella morte violenta e censurata resterà conficcata nella coscienza di ciascuno. Più di tutti in quella di Marco. Con un gemello c’è un legame speciale, è l’altra metà di te. Prima che sia troppo tardi, con coraggio e pudore Bellocchio cerca di togliere i lucchetti. Il pranzo di famiglia assume i toni di un tenero processo collettivo, senza imputati e senza giudici, senza assoluzioni né castighi. Con onestà disarmante, Marco porta sul banco dei testimoni il fardello della memoria, le emozioni sepolte, le intermittenze del cuore. Cucite nel film dal filo rosso delle musiche di Ezio Bosso.
Immagine di apertura: Marco Bellocchio in uno scatto recente (foto: Tenderstories)