Milano 23 giugno 2020
Per almeno due secoli è stato un pittore senza opere. Strano destino quello di Georges de La Tour: sufficientemente famoso in vita per vantare un’importante presenza triennale alla corte di Luigi XIII, lui che veniva dalla provincia (era nato in Lorena nel 1593), e poi l’oscurità (il colmo per chi adesso è definito il pittore della luce), il ricordo solo del nome, in assenza presunta dei suoi dipinti. Così quello che ormai è riconosciuto come il più grande degli artisti francesi del Seicento, si trovò scippato delle sue creazioni, attribuite ad altri pittori, perfino a Caravaggio. Anche per questo la mostra Georges La Tour: l’Europa della luce, nel Palazzo Reale di Milano fino al 27 settembre, dopo la sospensione dovuta all’epidemia di Covid-19, è un vero evento, perché propone un grande assoluto, incredibilmente misconosciuto, che gli italiani possono vedere solo adesso per la prima volta.

Promossa e prodotta da Comune di Milano Cultura, Palazzo Reale e MondoMostre Skira, curata da Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon, la mostra consente di fare il punto, anche grazie a un catalogo (edito da Skira) in cui si lanciano nuove ipotesi critiche e biografiche su La Tour (solo tre dipinti sono datati e consentono una bozza di cronologia). Una vita trascorsa per lo più nella natia Lorena e che si caratterizza per un presunto brutto carattere, per essere padre di dieci figli, per accudire molti cani randagi e per essere morto (nel 1658) appena due settimane dopo la scomparsa della moglie. A riscoprirlo nel 1915 fu uno studio di Hermann Voss che trovò seguito all’inizio solo in pochi storici, fra cui un entusiasta Roberto Longhi; ma è stato catalogato in modo organico solo a partire da una mostra che la Francia gli ha dedicato nel 1972, cioè meno di 50 anni fa.

A Milano si possono vedere 15 opere certe (delle 40 esistenti) più una attribuita, circondate dalle tele di suoi importanti contemporanei, fra cui gli olandesi Gerrit van Honthorst (noto anche come Gherardo delle Notti) e Paulus Bor, e il francese Trophime Bigot. La Tour, come indica il titolo, è conosciuto innanzitutto come pittore della luce, con un virtuosismo mai fine a se stesso. La critica ha poi evidenziato una dicotomia, definendolo – per una serie di altri dipinti – pittore di una realtà cruda, con la predilezione per soggetti presi dalla strada. Inoppugnabile, eppure più lo si guarda e più lo si vede distaccarsi da quel realismo secentesco che cammina sulle orme di Caravaggio e del caravaggismo. In genere La Tour è presentato mettendo in rilievo la differenza fra i temi “diurni”, considerati massimamente realistici, con una esibizione cruda (o crudele?) della povertà, e quelli “notturni”, dove la luce della candela sembra esaltare il silenzio, la meditazione, la preghiera.

Ma è proprio Francesca Cappelletti a notare come la sua realtà, «se osservata da vicino mostra tutta la sua ambiguità». Per cercare di comprendere questa pittura può essere utile una delle tante citazioni di Roberto Longhi sulle pareti del percorso espositivo: «Le sue decifrazioni d’argomenti religiosi sono le più intelligenti e moderne dopo quelle, scandalose, di Caravaggio; ma più misteriose, esoteriche».
Longhi circoscriveva questa sua opinione ad alcune opere, ma, se interpretata in senso lato, si può applicare a un corto circuito emotivo che parte dall’artista, si confronta con i personaggi, raggiunge chi guarda e in qualche modo torna verso il pittore; e quando il giro riprende, qualcosa si è modificato nella visione dell’opera, o almeno così sembra.

Credo che sia un buon modo per guardare e riguardare Rissa tra musici mendicanti o Suonatore di ghironda con cane, considerate fra le opere più realiste: l’esoterismo di cui parla Longhi si può allargare a un percorso iniziatico e coinvolgente, fino a farci comprendere come l’intento di La Tour sia quello di portarci sulla sua lunghezza d’onda che – succede quando c’è vera arte – ci sintonizza sul suo punto di vista, mai puramente descrittivo, anche se non possiamo percepirlo pienamente. La realtà del mistero umano, allora? Si può dire che anche nei “diurni” il pittore supera una soglia di comprensione, riferisce sempre di un “oltre” e di un “altro” che ci dobbiamo rassegnare a non poter comprendere del tutto.

Ciò accade ancora di più nei “notturni”, dove il pittore della luce esalta tecnica e ispirazione. Lo vediamo nella Maddalena penitente (una delle cinque versioni esistenti), dove i particolari sono rarefatti e la candela illumina l’anima. In altre opere, visi e posture sembrano mutare mentre li guardi (è qualcosa che ricorda quell’altro pittore misterioso che è stato El Greco), come, per esempio, Educazione della Vergine, Giovane che soffia su un tizzone e Giobbe deriso dalla moglie, dove le forme appaiono quasi vaganti, destinate – è questo che ci si aspetta guardandole – a muoversi, ingrandite, come proiettate nell’aria fino a diventare solo ombre della luce di una candela.
Immagine di apertura: Educazione della Vergine, 1650 ca., olio su tela, The Frick Collection, New York, Stati Uniti