Milano 27 Maggio 2023

Libro straordinariamente contemporaneo quello della scrittrice e sceneggiatrice barese Antonella Lattanzi dal titolo Cose che non si raccontano, pubblicato da Einaudi. Un racconto autobiografico che ha come protagonista assoluta l’autrice, ma che diventa corale, perché fotografa una classica situazione in cui incappa la donna che lavora ai giorni nostri. La generazione femminile oggi, dopo tante battaglie e promesse, vuole sentirsi libera di scegliere, di dare spazio alle proprie ambizioni ma, in questo modo, spesso non riesce a trovare il momento giusto per la maternità, conscia della dedizione e dell’impegno che ciò comporta.

La copertina del libro di Antonella Lattanzi “Cose che non si raccontano”, pubblicato da Einaudi

Antonella Lattanzi, appunto, tutta incentrata su lavoro e carriera, per anni ha accantonato il desiderio di avere un figlio. È persino ricorsa in giovane età a due aborti volontari, fiera di rivendicarne il diritto. Intanto il tempo è passato e verso i quarant’anni il desiderio irrompe, diventa smania, pur accompagnato da dubbi e paure sulla propria capacità di essere madre, sulla difficoltà di conciliare lavoro di scrittrice e vita di un altro essere. Ma il figlio non arriva. Ecco, allora, il ricorso alla scienza, alla procreazione assistita. Inizia così un calvario dall’esito incerto fatto di farmaci, test di gravidanza, ecografie, visite di medici specializzati, momenti di grande speranza seguiti da altri di grande dolore. La speranza spesso è così forte da apparire realtà. «Ho imparato che la speranza, quando è troppa, diventa certezza. Che non è verde e nemmeno gialla. La speranza è nera perché ti distrugge».
Anni in cui l’autrice affronta quasi sempre da sola le varie tappe del percorso clinico. Andrea, il suo compagno regista, è meno coinvolto nella sua ossessione e difficilmente abbandona il set per accompagnarla. Muta un po’ il suo comportamento quando si affaccia la possibilità di un cambiamento positivo che dona attimi di felicità e di magia, tutti da scoprire da parte del lettore.
Antonella, fatta qualche eccezione, non rivela i suoi segreti nemmeno agli amici più cari per reticenza, vergogna, sensi di colpa. «Ho una diga nella testa dove stanno nascoste tutte le cose che fanno davvero troppo male. Quelle cose, non voglio dirle a nessuno. Non voglio pensarle quelle cose; voglio che non siano mai esistite. E se non le dico, non esistono». E ancora: «Rivelare i segreti dolorosi impregna e spacca l’intimità di una serata dolce con un bicchiere di vino in mano a raccontarsi la giornata».

“Il figlio non è un vestito, non è un contratto per una casa al mare… hai detto no a due figli, tu non lo meriti..” scrive l’autrice (foto di M Ameen)

In contemporanea segue i preparativi per la pubblicazione del suo romanzo e ciò comporta contratti, presentazioni, sforzi sovrumani a cui si sottopone senza mai rivelare il suo stato, anzi sdoppiandosi nella donna pubblica combattiva e decisa, opposta a quella ansiosa e dubbiosa dell’intimità. E, quando il fato avverso si accanisce contro di lei, pensa che la giustizia della natura stia facendo il suo corso; affiorano i sensi di colpa per i due aborti volontari, il lungo tempo dedicato al lavoro e alla sua realizzazione. “Te lo meriti”, le ripete continuamente la voce della coscienza, ogni volta che un ostacolo si frappone al sogno della maternità. …Te lo sei meritato. «Un figlio non è un vestito, non è un contratto per la pubblicazione di un libro, non è un contratto in nero per una casa al mare, hai detto no a due figli e allora quel dito, che da sempre ti aspettavi,  ha finalmente bucato le nuvole e ti ha indicato davanti a tutti e ha detto: tu non lo meriti…..»
A liberarla da tutto ciò che la opprime interviene la scrittura, da sempre suo sostegno per non sconfinare nella pazzia. Tutti quei segreti custoditi a lungo dentro di sé e non verbalizzati irrompono in questo libro, che rinnova il suo dolore, ma che aiuta sia lei sia altre donne a capire quel vicolo cieco in cui ci si imbatte in situazioni di mancata maternità.
È un libro intenso, crudo, schietto, che turba, ma che aiuta a guardare in faccia la propria sofferenza e il proprio animo senza finzioni. Emergono infatti anche le emozioni più deprecabili come l’odio di Antonella, madre mancata, nei confronti delle donne incinte che ancora sentivano il battito del proprio bambino e con cui era costretta a convivere nella stanza ospedaliera. «Durante quei giorni infiniti in ospedale, non voglio sentire nessuno con la voce felice, voglio che muoiono tutti……….sono molto soddisfatta del dolore altrui».

Una donna mentre si sta sottoponendo ad un controllo ecografico. Il percorso della fecondazione assistita è lungo e faticoso, punteggiato da relazioni con medici che spesso non hanno la dovuta sensibilità (foto: Mart Production)

Che dire poi del personale medico? Accanto a splendidi esempi come il ginecologo S., che starà sempre vicino alla sua paziente, seguendola con delicatezza e disponibilità, ci sono tanti medici e infermieri insensibili, che spesso pronunciano frasi inopportune per il gusto di ferire, o per superficialità e che certo non aiutano a gestire il dolore dell’evento distruttivo. Tutto questo unito al comportamento dell’uomo/ compagno spesso più distaccato, quasi forzato alla riproduzione, inducono a riflettere sulla solitudine della donna nel percorso a volte tortuoso del diventare madre. Antonella ben rappresenta e incarna le contraddizioni della società attuale. Da un lato, infatti, si lanciano appelli (equivoci e sospetti) alla natalità (la donna fattrice come una volta?) per svecchiare la popolazione; dall’altro, poco o niente si fa per tutelare e supportare la donna medesima in casa, o fuori. La scrittura non è lineare e ordinata come da romanzo; sembra piuttosto un resoconto disordinato e frammentario dei pensieri, che, ruotando però intorno all’unico problema, rendono coeso il tutto. Gli spazi bianchi, che isolano riflessioni del passato e del presente, corrispondono all’avvicendarsi ansioso delle emozioni della protagonista, al ricordo continuo di ciò che è stato e alla presa di coscienza di ciò che è. «Tutto quel dolore. Non è possibile, ma era comunque meglio di questo vuoto che sono ora».
È un libro vero, coinvolgente che si legge tutto d’un fiato e che, pur nella frammentarietà e nei salti temporali, crea suspence. Lo stile è duro e le parole, semplici, colloquiali, adeguate al vissuto, bucano l’animo del lettore. L’autrice lotta con se stessa e si autoanalizza in modo spietato senza ricorrere a ricercatezze e periodi complessi.
«Non si può scrivere un libro risparmiandosi. Si spera di poterlo scrivere non avendo pietà di nessuno, neanche di sé».

Immagine di apertura: foto di Ann Danilina

.

Nata a Noci (Bari) sull’altopiano delle Murge, è laureata in Lettere Classiche all’università Cattolica di Milano, città dove ha poi sempre vissuto e insegnato nelle scuole medie e in quelle superiori. Ama viaggiare, cucinare, frequentare i concerti, ma soprattutto leggere. E’ "un'appassionata" di parole scritte, soprattutto sulla carta e non su kindle.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.