Milano 27 luglio 2023
Lo scorso mese di maggio a Padova è stato dato molto rilievo sulla stampa e in televisione al trapianto di un cuore donato da un paziente in arresto cardiocircolatorio realizzato dall’equipe del Centro di cardiochirurgia “Vincenzo Gallucci” diretto dal professor Gino Gerosa. La donazione è avvenuta presso la Rianimazione dell’Ospedale “Ca’ Foncello” di Treviso, con il coordinamento del Centro regionale trapianti del Veneto. Finora quando il paziente decedeva per arresto cardiocircolatorio, in caso di donazione, si utilizzavano per il trapianto i reni, il fegato, i polmoni, ma non il cuore stesso, perché lo si riteneva lesionato e d’altro canto la legislazione italiana richiede, prima di intervenire, un tempo di attesa molto lungo, venti minuti.

Per quanto Gino Gerosa abbia spiegato la procedura e che cosa sia stato fatto per “resuscitare” quel cuore – un termine che desta stupore, poi corretto in “ricondizionare” – è necessario fare chiarezza da diversi punti di vista. Rispetto ai trapianti di cuore fatti finora dove il cervello è totalmente spento, ma il cuore batte ancora e irrora gli organi che possono venir prelevati, la novità in questo caso è il cuore che si è arrestato (di solito per una fibrillazione ventricolare) diventa lui stesso oggetto di trapianto. Bisogna precisare che, vista la carenza di organi che da sempre accompagna questa chirurgia, per ampliare il numero dei donatori, dal 1995 la comunità scientifica ha individuato categorie di possibili donatori “a cuore non battente”. Diversi però, a seconda dei Paesi, sono i tempi per attestare la morte che vanno da un minimo di 2 ad un massimo di 20 minuti di arresto cardiocircolatorio. In Italia questo tempo, come abbiamo detto, è di 20 minuti, considerato finora troppo lungo per prelevare e trapiantare con successo il cuore.

Nel caso padovano il tempo di ischemia totale – tempo in cui il cuore è rimasto fermo – è stato di 42 minuti. Per farlo ripartire l’equipe ha utilizzato diverse tecniche di riperfusione: una soluzione per evitare i danni da carenza di ossigeno e l’utilizzo della circolazione extracorporea. Testato per due ore, il cuore è stato dichiarato idoneo. Come racconta il professor Gerosa, la procedura di prelievo è avvenuta a Treviso e il trapianto a Padova. Se le valutazioni sull’affidabilità del cuore da prelevare valgono comunque e sempre, questo caso pone questioni più ampie vista la sua novità. Ne parliamo con Ettore Vitali, cardiochirurgo ora in pensione, con una lunga carriera al Centro “De Gasperis” dell’ospedale Niguarda di Milano, che ha alle spalle un’esperienza di 300 trapianti e ne ha vissuto l’evoluzione fin dalle prime procedure in Italia nel 1985.
Qual è la sua impressione sul trapianto fatto a Padova?
«Direi che è tutto ancora da valutare. Non ci sono certezze, né sappiamo quanto sia sicuro per il paziente perché non abbiamo studi in proposito. Per ora è una chirurgia sperimentale. In Italia abbiamo aspettato vent’anni per i primi trapianti di cuore che abbiamo fatto quando la procedura è diventata sicura grazie alla ciclosporina, il farmaco che evita il rigetto».
Che cosa significa “ricondizionare” un cuore?
«Rimetterlo in funzione agendo sulla chimica per riattivare l’elettricità e la funzione di pompa. La soluzione per evitare i danni da carenza di ossigeno permette di fermare il cuore senza che questo subisca danni irreversibili. È la stessa che si usa per indurre un blocco temporaneo del funzionamento del cuore durante gli interventi a cuore aperto in circolazione extracorporea. Poi il cuore è stato riperfuso con circolazione extracorporea per valutare la funzione di pompa».
Quali rischi vede per questi trapianti?
«Vedo il rischio di trapianti con cuori di serie A e di serie B. A chi lo diamo (il cuore fermo) e perché lo diamo, se tutti i cuori vanno bene? Con quali regole, che devono essere accettate dai rianimatori di tutti gli ospedali? Tutto deve funzionare rispetto a parametri chiari. Senza ombra di dubbio il cuore di un donatore in morte cerebrale ha subito minori insulti, è un cuore più affidabile».
In che termini?
«È un cuore più facile da far ripartire, dopo dieci minuti il cervello è morto irreversibilmente».
Davanti alla mancanza di cuori da trapiantare, che cosa si può fare?
«Mi sono occupato di assistenze al ventricolo, i cosiddetti “cuori artificiali” che permettono ai pazienti di arrivare al trapianto o che possono diventare una terapia definitiva per i pazienti con insufficienza cardiaca grave che non sono inseribili in lista trapianti. I cuori da trapiantare sono pochi da sempre, ma servono soluzioni con rischi accettabili».
Nello specifico caso padovano che cosa chiederebbe al professor Gerosa?
«Perché ha scelto Treviso che non è un centro trapianti e perché far correre un rischio in più a quel cuore trasportandolo battente. Anche se ricordo casi controversi a Padova per questioni di valvole cardiache».
Il pericolo maggiore che vede?
«Con tutti questi “cuori arrestati”, quanti centri faranno questi trapianti? C’è il pericolo che “il cuore fermo” possa innescare un mercato».
Tutti i cuori sono uguali?
«Un cuore porta con sé la vita del donatore ed è sempre un mistero».
Attualmente, stando ai dati forniti dal Centro Nazionale Trapianti, in Italia ci sono 600 pazienti in attesa di un trapianto di cuore e ogni anno si effettuano circa 250 interventi, con tempi di attesa così lunghi che purtroppo molti pazienti non arrivano al trapianto. Per quanto riguarda i donatori a cuore fermo, nel 2022 sono stati utilizzati gli organi di 131 di questi donatori, con un incremento dell’attività di oltre il 60 per cento rispetto al 2021. I trapianti realizzati sono stati 221.
Immagine di apertura: foto di Alexander Grey