Milano 27 Maggio 2023

11 febbraio 2013, ore 11,46: «Il Papa lascia il Pontificato dal 28/2». Cinque parole battute dall’Ansa e subito rimbalzate per tutta l’ecumene mediatica assicurando alla vaticanista Giovanna Chirri un posto nel pantheon degli autori di scoop. Il latinorum dell’ingravescentem aetatem buttato lì al Concistoro da Benedetto XVI era stato il buco della serratura attraverso cui lei ha visto l’annuncio delle dimissioni di Ratzinger (grazie liceo classico).

Giangiacomo Schiavi in uno scatto recente. Piacentino, ha lavorato per molti anni a “Il Corriere della Sera”, dove è stato a capo della Cronaca di Milano e poi Vicedirettore dal 2009 al 2015. E’ autore di numerosi saggi (fonte: Piacenzaonline)

Nella nostra “società liquida” teorizzata dal filosofo Zygmunt Bauman dove l’unica cosa certa è l’incertezza, anche le notizie scritte, parlate o che altro, soffrono la perdita di credibilità, travolte dalla valanga digitale che sul web scarica di tutto, voci, gossip, sensazionalismi, fango vario, tweet, pubblicità camuffata, le fake news destinate a bruciare in breve. Spazzatura che alimenta la disaffezione dei lettori, un parco sempre più ridotto. Nelle pagine introduttive del suo libro, Scoop ! – Quando i giornalisti fanno notizia (Antiga Edizioni), Giangiacomo Schiavi, più di quarant’anni di carriera nella carta stampata, dalla provincia fino alla vicedirezione de Il Corriere della Sera, questa deriva la denuncia senza indulgenze.
Limitarlo a colpo sensazionale, magari un fascicolo rubato in questura, l’intervista pagata, confidenze non disinteressate eccetera, il termine scoop -in inglese mestolo e per metonimia ciò che si pesca – sarebbe riduttivo. Schiavi l’interpreta come l’articolo che fa la differenza, frutto maturo del lavoro appassionato del cronista, intelligenza, capacità di selezione, piombare “sul posto”: le classiche virtù professionali che – non escluso un pizzico di fortuna – fanno aprire gli occhi all’opinione pubblica, il soggetto collettivo creato nell’epoca dei lumi proprio dalla diffusione delle notizie stampate, quelle ora più a rischio. E le barricate della sana professione mai come ora vanno invece tenute alte, ammonisce Schiavi, a scongiurare la profezia dello stesso New York Times che nel 2043 immagina di vendere l’ultima copia.

La copertina di “Scoop”, di Giangiacomo Schiavi, edito da Antiga

Nelle 427 pagine scorrono così, incorniciate dalle ricche note dell’autore, cronache dei momenti salienti dal Dopoguerra in poi. Un’ antologia del giornalismo che fa davvero notizia firmata dai mostri sacri, ma dove come la Chirri trovano spazio, a pari diritto, Elisabetta Rosaspina – il Capodanno 1995 attaccata ore al telefono a scoprire il pasticciaccio delle nomine lottizzate nella sanità lombarda – o Maddalena Berbenni che ha documentato la macabra scena dei camion militari che portavano via di notte da Bergamo le bare delle vittime del Covid perché lì non c’era più posto.
“Scorciatoia degli asini” giudicava Montanelli lo scoop. Ma Schiavi non si fa scrupolo di porre sotto una tale etichetta quei servizi dalla Budapest 1956 nella quale il grande giornalista riconosceva non una rivolta anticomunista, come pensavano i lettori del Il Corriere della Sera, ma la disperata richiesta di un diverso comunismo. E Dino Buzzati che racconta, il tono sospeso e allusivo del suo Deserto dei tartari, la casa dove Rina Fort, 1946, aveva appena consumato la sanguinosa vendetta: il silenzio rotto dalla “goccia del lavandino”, “il pentolino con dentro ancora un resto di zuppa”?

Oriana Fallaci in una immagine giovanile (fonte: National Geographic)

Per arrivare, a Oriana Fallaci, una capace di dire in faccia a Gheddafi che non piangerebbe a vederlo morto e che alla gente sorpresa di vedere un gigante del giornalismo calato in una figura così minuta, allarga le braccia: «Sono un metro e 56 scarso. Tutto qui». In fatto di centimetri dal suolo, bella gara con Ettore Mo, piccolino anche lui, che, a dorso di mulo, nell’ Afghanistan invaso dall’armata sovietica, raggiunge ’impenetrabile quartier generale dei mujaheddin ribelli. Ecco Marco Nozza cercare il cappotto di Valpreda, appeso dalla zia sul balcone di casa ,per smontare la testimonianza del tassista su piazza Fontana; la Loocked, il Watergate italiano, di Giampaolo Pansa e Gennaro Scardocchia; il coraggio di scrivere costato la vita a Walter Tobagi e a Maria Grazia Cutuli; la storica intervista-testamento di Giorgio Bocca al generale Dalla Chiesa o quella di Paolo Panerai a Sindona che si credeva sicuro nel suo rifugio di lusso a New York. E poi il duo Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo a caccia di corruzioni e corrotti; il racconto in diretta della tragedia dei clandestini di Francesco Battistini e di Fabrizio Gatti; il “viaggio negli ospedali”, malato fra i malati, di Gigi Ghirotti. E via con l’alluvione in Valtellina di Vittorio Feltri. La “fossa dei leoni” nell’hinterland milanese di Enzo Biagi, la saga di Berlusconi su cui ogni quotidiano ha cercato di piantare la bandierina. E ancora Venanzio Postiglione strappato in viaggio di nozze dall’albergo di Miami perché nella villa vicina, salendo i cinque gradini, scorreva ancora il sangue di Gianni Versace. Più “sulla notizia” di così……
Queste cronache però sfiorano appena l’alba di questo secolo. Poi la pianta va a inaridirsi.

Il numero di maggio di “Città” la rivista semestrale su Milano, le sue sfide e le sue tendenze, di cui Giangiacomo Schiavi è condirettore insieme a Giorgio Teruzzi

Che cosa succede? Non ci sono più le notizie né chi le sa raccontare (non per nulla un capitolo si intitola: C’era una volta la cronaca)?

«Oggi –  risponde Schiavi – il giornalismo di ogni tipo tende a massificarsi, a confondersi con la comunicazione di marketing, della pubblicità. E con l’inflazione di notizie che ci piove dalle fonti più disparate, basta l’immagine raccolta da un cellulare a fare il giro del mondo, si finisce a sedersi sul copia-incolla, a farsi imbalsamare nel web. Risultato? Nella carta  siamo precipitati dai cinque milioni di copie vendute di qualche anno fa al milione di oggi».

Il 2043 si avvicina: siamo alla resa?

«Nessuna nostalgia di certo giornalismo paludato di un tempo, i redattori in grisaglia che passavano le agenzie e un direttore mitico come Missiroli del Corriere che se gli si proponeva una notizia da pubblicare rispondeva ironico: “Ci vorrebbe un giornale”. Ma oggi va rovesciata l’equazione che sembra imporsi: dominare la tecnologia, sfruttare in modo critico la miniera di notizie che ci offre e non lasciarsene dominare riducendoci a un algoritmo. Recuperare la passione della ricerca, l’orgoglio di smascherare le mistificazioni, andare controvento, correre a vedere direttamente. Lo psichiatra Vittorino Andreoli mi dice che dobbiamo tornare ad indossare i sandali dei frati. Pontificare sulle stesse cose dai talk show aumenta la diffidenza verso una professione vittima delle invasioni di campo dei poteri».

Utopia?

«Nel frastuono multimediale uno spazio, sia pure di nicchia, per un’informazione seria, rimane. Penso al patrimonio delle pubblicazioni minori, su carta e online, che, rispetto ai supermarket delle notizie omogeneizzate, possono offrire prodotti genuini, come la bottega dell’artigiano. Un’ altra via da percorrere e lo dico sull’esperienza della Posta al Corriere che gestisco per l’edizione milanese, è il rapporto fiduciario con i lettori. Sono loro spesso a dare il là alla notizia con il web, ad arrivare sul posto magari prima di noi. Non sono spettatori passivi. Occorre interagire».

Una edicola con la sua esposizione di giornali. Un bene in via di estinzione (foto di Marco Ottaviano)

Anche quei free lance in prima linea in Ucraina, un giornalismo autonomo, fai-da- te, sono forti segnali di un cambiamento da cogliere. Lo sottolinea nella lunga intervista che chiude il libro Ferruccio De Bortoli, editorialista, due volte direttore del Corriere: «Quei giovani coraggiosi e preparati svolgono un vero servizio pubblico e a noi, professionisti tutelati e privilegiati, insegnano la passione del mestiere . Una lezione su cui riflettere per aprirci sul futuro». Nonostante tutto anche per De Bortoli la parola scritta non può abbassare la bandiera: «Ha molto più di tre dimensioni, non c’è algoritmo o social network che possa sostituire l’emozione profonda del racconto di un grande giornalista».
Il passaggio alla multimedialità non è compiuto. Siamo in mezzo al guado. Il futuro del giornalismo è ancora da giocare.

Immagine di apertura: foto Patrik Houstecky’

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Giornalista professionista dal 1971. Milanese, si è laureato in Filosofia alla Statale. A fine 1969 l'ingresso al "Corriere della Sera" dove ha percorso tutta la vita professionale, a parte un paio di libri e qualche pubblicazione extra. In via Solferino cinque anni di gavetta, l'ingresso nella redazione del "Corriere d'Informazione" e poi il "Corrierone" occupandosi per lo più di cronache, fino alla pensione.

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