Milano 27 Giugno 2023
Lugano, marzo 2020, è tempo di Covid e mi aggiro nella casa dei miei genitori dove sono tornata, dopo sessant’anni, a vivere il periodo di lockdown. Annoiata dal forzato immobilismo, rovisto fra vecchi documenti e ritrovo le lettere dello zio Pin, Giuseppe Castelli, fratello di mio nonno, che da anni mi guarda dal suo autoritratto appeso in sala. Ha una simpatica aria di famiglia.

Era nato nel 1866 a Melide, sulle rive del lago di Lugano, terra d’artisti come Domenico Fontana, Francesco Castelli detto Borromini, Matteo Castelli architetto del Re di Polonia e di tanti altri, stuccatori, scarpellini, muratori, architetti e pittori, che fin dal Medioevo operarono in Italia ed in Europa contribuendo non poco all’edificazione di città come Salisburgo, Praga, San Pietroburgo, Roma e Venezia.
A 17 anni Giuseppe si sposta a Milano dove studia pittura all’Accademia di Brera per poi imbarcarsi, nell’autunno del 1887 a Genova, destinazione Argentina. Il motivo non è dato di sapere, ma in quegli anni il mito dell’America come il “paese della Cuccagna” spingeva molti ticinesi a spostarsi fra le due coste dell’Atlantico, come ben documenta Ivano Frassinelli in Verso l’Argentina-Emigrazione, insediamento, identità tra Otto e Novecento (ed. Armando Dadò, Locarno, 2000) .
Del suo viaggio, dell’arrivo a Buenos Aires e della permanenza a Cordoba e a Tucuman restano una ventina di lettere, ma dopo l’ultima del 29 aprile 1900, non si seppe più nulla di lui nonostante le ricerche fatte a più riprese dalla famiglia. Riprendo in mano le sue lettere ingiallite e provo a consultare on line gli archivi del CEMLA-Centro de Estudios Migratorios Latinoamericanos istituito dai missionari saveriani di Buenos Aires, la più completa banca dati sugli arrivi di immigrati in Argentina registrati al momento dello sbarco tra il 1882 e il 1960. Con una certa emozione inserisco il nome Giuseppe Castelli ed ecco una prima sorpresa: sbarco il 19.10.1887, porto d’imbarco Genova, Nave Provence, anni 21, professione “jornalero”, sa leggere e scrivere.

Questa scoperta e l’interesse personale per il tema delle migrazioni iniziano a dare un senso a proseguire nella ricerca; così mi butto a capofitto nella lettura delle sue lettere ormai ingiallite. Custodite da più di cento anni tra le cose care di famiglia, hanno molto a che fare con quanto raccontano oggi i giovani migranti che frequentano l’Associazione Francesco Realmonte, una onlus milanese che si occupa dell’accoglienza d’immigrati di cui sono Vicepresidente e fondatrice. Vi ritrovo gli stessi temi, le stesse paure, le stesse speranze. Mi colpisce il ripetersi della storia, il fatto che gli avvenimenti si ripropongono con altre facce, ma con medesimi destini.
Sfoglio le lettere dello zio Pin e penso a Mohamed, Serine, Omar, a tanti altri che come lui hanno compiuto lunghi e tormentati viaggi per giungere sulle coste italiane. Cambiano le forme e le ragioni di questi spostamenti ma in tutte, come nei racconti che si ripetono nel tempo, s’intravede la speranza di un nuovo ancoraggio, di un futuro migliore, di poter far sentire la propria voce, affermarsi, mantenere un’identità.

Allora come oggi si partiva con grandi speranze, poi le illusioni lasciavano il campo alle amarezze per la difficoltà nell’inserirsi in un contesto sconosciuto, nel trovare un lavoro, nel capire ed essere capiti, ma soprattutto per la solitudine e una grandissima nostalgia che ritorna come costante nelle lettere: «Io non mi dimentico mai, sempre penso alla famiglia, ai parenti, agli amici, ed infine penso a quei bei giorni che si passava pescando di notte e di giorno…Ah!!!…sorte ingrata che mi facesti venire in questi paesi donde si brucia di caldo, donde il sole cuoce la gente. Felici voi che siete lì al fresco…».
La prima lettera è del 22 ottobre 1887: «Il viaggio non fu troppo buono…il vapore carico di circa duemila e cinquecento passeggeri, nove sono morti, mentre quattro sono nati…».

Dopo 31 giorni di viaggio l’arrivo al porto di Buenos Aires dove da 10 anni era in funzione l’Hotel de immigrantes che offriva vitto e alloggio gratuiti per quattro giorni. Lì incontra Abbondio Restelli che gli trova un lavoro per 15 franchi a giornata come operaio.
Nel novembre 1887 è sempre a Buenos Aires dai Restelli ed è contento e scrive: «Preparatemi una bella sposina che fra quattro anni garantito vengo io, me la zuffo e poi ritorno che in America si sta molto meglio che in Melide….»
Le lettere del 22 settembre 1888 e del 9 gennaio 1890 sono drammatiche. Scrive da Tucuman dove c’è la peste: «muore la gente più che le mosche, è un continuo vedere carri di morti che fa paura anche agli uomini di sasso».

E poi la crisi economica: «…tutto adesso qui va male, siamo nel vero inferno… per il solo pane io spendo un franco e con esso non mangio molto…lavori ce ne sono pochi, e quei pochi che ci sono li pagano a prezzo molto basso e sono in cinquanta a farli: e dopo fatti i lavori la maggior parte non li pagano…così che bisogna sempre lavorare per avanzare le ossa stanche e venir negro dal sole…».
Con la lettera del 26 febbraio 1893 si capisce che partecipa alla rivoluzione del Cile dove sfida la morte e va in carcere sette volte: «Nelle battaglie della rivoluzione Chilena cadeva la gente amica ed nemica come cade la neve in genajo, alla mia destra, alla mia sinistra, d’avanti, di dietro, eppure io que l’aspettava come un sacramento di Dio con santa rassegnazione e disposto a sortire di tra i vivi con sereno coraggio e sangue freddo inaudito, la morte dico non mi volle portare con sé».
Nel 1896 denuncia «….altra piaga è quella delle cavallette: l’anno passato hanno distrutto tutte le seminagioni di frumento che è il prodotto e la ricchezza di varie province Argentine…cuando passan è come veder le nuvole cuando vuol fare il temporale….per delle ore impediscon di vedere il sole».

Da Cordoba nel novembre del 1897 scrive disperato al fratello Battista: «mi trovo solo, piango, mi dispero, non trovo pace. Io che per ben sette volte fui carcerato, io che fui al punto di esser fucilato, io anima della rivoluzione, forte, coraggioso, ora mi vedo abbattuto come leone senza denti e senza unghie. Io che giuocai la vita più volte col valore ed il rider sulle labbra come si giuoca una partita alle carte, ora mi vedo per una perdita materiale nella più triste desolazione… senza un’anima che mi consoli….». Dal seguito della lettera si capisce che è scappato da Tucuman perché teme un assassinio o una vendetta.

L’intestazione delle lettere da Cordoba è: El Ministro de Hacienda Colonias y Obras Publicas da dove scrive nel novembre 1898 raccomandandogli i fratelli Battista e Giovanna e per loro fare tutto il possibile perché siano felici: «…che più vale la felicità della famiglia che tutte le ricchezze». Il ricordo della famiglia è presente in quasi tutte le lettere: «Per carità ti prego mi mantener l’unione fra voi fratelli. Fa il possibile di tenerla questa unione anche a costo di sacrifici… In quanto alla divisione farai a tuo giudizio in unione sempre colle idee della sorella».
Nell’ultima lettera dell’aprile 1900 niente fa presagire una fine, si dice socio della Sociedad Helvetia de Soccorsos Mutuos e frequenta la confiteria suiza. La situazione pare ora buona : «Non è più necessario altre parole, altro che dirti che qui si lavora, si mangia e si beve un poco meglio che in Europa … l’oro è sempre nei d’intorni del 230% vale a dire più o meno la metà del valore. Con ciò salute a tutti e siate felici che io lo desidero».
Poi, più niente….
Immagine di apertura: il quartiere italiano di Buenos Aires, La Boca, con le tipiche casette colorate dagli immigrati con le rimanenze di vernice usata per le chiatte del trasporto merci