Milano 23 marzo 2020
Quarantena, parola antica (fu usata per la prima volta a Venezia nel 1127 per un’epidemia di lebbra) che rievoca la peste, la famosa Morte Nera che devastò l’Europa nel Trecento. Allora la Serenissima per prima, e Genova poco dopo, cominciarono ad imporre agli equipaggi delle navi in arrivo un isolamento di quaranta giorni per arginare la diffusione del morbo. Il provvedimento si diffuse in altri Paesi e servì poi a combattere piaghe come la sifilide nell’Europa del Nord alla fine del Quattrocento o la febbre gialla in Spagna all’inizio del XIX secolo.

Pensavamo che fosse una storia del passato ed eccoci qua, invece, tutti a casa: sessanta milioni di persone confinate alla finestra, o in giardino, o terrazza, per chi ha la fortuna di averli. Quanto durerà? Al momento non lo sappiamo. …. Ma soprattutto quali conseguenze avrà sulla nostra psiche? Ha provato a delinearne il profilo una ricerca del dipartimento di Psicologia Clinica del King’s College di Londra, appena pubblicata sulla rivista Lancet, analizzando i dati emersi dagli studi condotti finora in proposito (in gergo tecnico Review). Indagini realizzate in situazioni analoghe alla nostra, anche se i numeri non hanno proporzioni paragonabili a quanto sta accadendo oggi; comunque, migliaia di persone in quarantena in Cina, Canada, Hong Kong, Singapore e Taiwan nel 2003 per l’epidemia di SARS, interi villaggi isolati in Guinea, Liberia e Sierra Leone, per il virus Ebola nel 2014. Ma degli oltre tremila studi presi in considerazione, alla fine soltanto 24 sono parsi attendibili. In quest’ultimi, condotti in Canada, Taiwan, Sierra Leone, Liberia, Senegal, l’isolamento variava dai 10 ai venti giorni, e spesso non risultava chiara la sua durata.

Pur con tali limiti, si è visto che la quarantena si porta dietro un carico di ansia (la paura del contagio), irritabilità, umor nero, insonnia (molto frequente) e difficoltà di concentrazione. E, fatto significativo, i disturbi persistono per diverse settimane (mesi?) anche quando è terminata: di mille persone in quarantena in Canada per la Sars per un periodo dagli otto ai trenta giorni, il 50 per cento si metteva in allarme appena qualcuno gli starnutiva vicino, il 26 per cento evitava gli spazi chiusi e il 21 per cento si teneva alla larga da tutte le aree pubbliche. Come persistevano forme ossessive di igiene: lavarsi continuamente le mani e disinfettare gli oggetti.

I soggetti più a rischio, stando a questa revisione del Lancet, sembrano essere i medici (e il personale sanitario in genere), i giovani, le persone meno istruite e con reddito più basso e, inevitabilmente, chi soffre già di disturbi mentali, anche lievi. «Quanto emerso non mi meraviglia – commenta Fabio Sbattella, Direttore dell’unità di ricerca di Psicologia dell’emergenza all’Università Cattolica di Milano, autore di diversi libri in proposito, tra questi Fondamenti di psicologia dell’emergenza (FrancoAngeli) – . È in linea con quanto sappiamo sulle condizioni psicologiche di chi vive agli arresti domiciliari o si è trovato in isolamento, come negli alberghi improvvisati per i terremotati. Queste situazioni lasciano il segno, inevitabilmente, e spesso fanno emergere una fragilità esistenziale che era già presente. Senza contare l’aumento della conflittualità all’interno della famiglia. La scelta di chiudere in casa un’intera popolazione ha una motivazione forte di salute pubblica, scongiurare un’epidemia da coronavirus, ma è indubbio che la salute è anche quella mentale. Ne abbiamo tenuto abbastanza conto? La risposta non è facile. Certo è che l’ansia aumenta laddove c’è incertezza. L’informazione – come sottolineano i ricercatori del King’s College – è fondamentale, deve essere attendibile, chiara, mai terroristica o ossessiva, capace di valorizzare gli scopi positivi di una misura così drastica. Non si può dire che la mascherina non serve e una settimana dopo affermare il contrario».
Certamente le istituzioni in questo momento sono chiamate a un compito non facile, visto le molte cose che ancora non sappiamo sul coronavirus: si rischia che le raccomandazioni siano eccessive esaltando timori e paure, oppure contradditorie, generano un’incertezza inquietante. «È importante anche valorizzare il senso di coesione sociale che può assumere l’indicazione “stare a casa” come scelta collettiva – sottolinea Lavinia Barone, professore ordinario di Psicologia all’università di Pavia -. L’interruzione dei contatti sociali, o la sua riduzione, per un tempo circoscritto e per ragioni che riusciamo a comprendere e non a subire, può generare senso di appartenenza ed essere un antidoto all’isolamento».
Immagine di apertura: foto di TPHeinz