Milano 27 Settembre 2022

Rispetto ai Talebani, Erode rischia di apparire un dilettante. Un anno dopo la ripresa del potere da parte dei chierici di Allah (o studenti islamici che dir si voglia) la situazione dei bambini, ma soprattutto delle bambine, è catastrofica. Se i maschietti nell’ultimo anno hanno mangiato poco, le femminucce si sono nutrite ancora meno. Se l’80 per cento dei piccoli un mese fa era alla fame, le bimbe lo erano al doppio. Se i ragazzini hanno avuto problemi mentali, le loro compagne hanno subito ancora di più l’isolamento, lo stress emotivo per l’impossibilità di andare a scuola e di condurre una vita normale.

Questa bimba afgana sorride al fotografo. In realtà per le bambine in Afghanistan le condizioni di vita oggi sono dure; escluse da tutto e malnutrite vanno incontro facilmente a depressione (foto di Amber Clay)

A dirlo è un report di Save the Children, rilanciato dalla rivista scientifica inglese Lancet. «È una crisi umanitaria, ma anche una catastrofe per i diritti dei bambini. In particolare, l’impatto più forte della situazione deteriorata ricade sulle piccoline: meno cibo e più problemi mentali ed emotivi», sottolinea Christopher Nyamandi, direttore, per l’Afghanistan, della la più grande organizzazione internazionale indipendente che dal 1919 è impegnata in 120 stati a migliorare la vita dei bambini.
«In quel Paese manca tutto, tranne la guerra», sintetizzano alla Pangea onlus, fondazione italiana che dal 2003 opera a Kabul a favore dei bambini e ragazzi sordi e delle donne con progetti di microcredito. Non mancano massacri quasi quotidiani da parte dell’Isis, concorrente non meno sanguinario dei talebani. Non mancano i disastri naturali. «Quest’anno, a giugno, il Paese, già in preda alla fame, è stato piagato dalla siccità e da un terremoto che ha ucciso oltre 1.000 persone -, ha ricordato il 26 agosto scorso Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia -. Occorre d’urgenza riaccendere i riflettori».
In realtà, passata “la festa”, i riflettori si sono spenti su un Paese allo sfascio. Il 15 agosto scorso, il cielo di Kabul si è illuminato di fuochi d’artificio. Era il primo anniversario del ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan. Si celebrava la prima giornata della libertà. Eppure, c’era, e c’è poco, da festeggiare. Soprattutto se si è nell’età più delicata dell’esistenza. L’infanzia in Afghanistan è un diritto negato.

Un bambino ricoverato all’Indira Gandhi Children’s Hospital di Kabul (foto Reuters)

Prima che i talebani tornassero a insediarsi nel cuore dell’Asia, l’Indira Gandhi Children’s Hospital, la più grande e importante struttura sanitaria per bambini, nel centro della capitale, accoglieva 226 piccoli malnutriti sotto i 5 anni. «Nei 6 mesi successi alla restaurazione dell’Emirato Islamico – ha dichiarato al Lancet il pediatra Hajigul Tasawor Kamalzai – ; ne abbiamo ricoverati 718. Di questi 90 non ce l’hanno fatta. Non avevano potuto ricevere le cure adeguate perché erano poverissimi. La mancanza di cibo è il problema più grave che colpisce i minori di 5 anni».
I dati forniti dall’Unicef non sono meno allarmanti. Dal 15 agosto 2021 è noto che le autorità afghane hanno imposto restrizioni severe sui diritti delle donne e bambine. Con affetti devastanti sulle loro condizioni psicofisiche. Muhammad Faisal, Nutrition Manager dell’Unicef Afghanistan, è chiaro: «La povertà diffusa porta alla carenza di sostanze nutritive anche per le donne incinte e le mamme che allattano; la situazione disperata dell’acqua potabile provoca malattie trasmissibili per via idrica». I dati più recenti dell’UN World Food Programme (WFP o PAM, Programma Alimentare Mondiale) dicono che nell’intero Paese quasi 4 milioni di bambini soffrono di malnutrizione grave, con 4,7 milioni tra puerpere e neonati che stanno per finire in questo stato.

Una suggestiva immagine notturna di Kabul (foto di Danial)

«Una situazione così non si era mai vista nei Paesi dove opera la nostra agenzia né in Afghanistan – commenta Philippe Kropf, responsabile delle Comunicazioni per il WFP Afghanistan – . La malnutrizione è all’origine di quasi la metà delle morti infantili, di tre volte superiori rispetto ai loro coetanei sani».
Tuttavia, ricorda il report di Save the Children, la mancanza di cibo provoca anche altri danni: il 26 per cento delle ragazze mostra segni di depressione, rispetto al 16 per cento dei coetanei maschi, il 27 per cento soffre d’ansia mentre i maschietti si fermano al 18.
«Spero che i talebani cambino idea sulle donne e le ragazze – ha dichiarato nei giorni scorsi all’emittente tedesca Deutsche Welle la ginecologa Roshank Wardak, ex deputata, pur antiamericana e fiera sostenitrice dell’indipendenza afghana e del nuovo governo – Senza la parte femminile il Paese non può andare avanti».

I Talebani sparano in aria a Kabul nell’agosto scorso per disperdere la protesta delle donne (foto di Wakil KOHSAR / AFP)

Riassume Mohammad Yasir Essar, medico ricercatore afghano trasferitosi nel vicino Tajikistan (esperto di malattie infettive e cambiamenti climatici): «Il ritorno dei talebani con la crisi economica che ne è seguita portandosi dietro insicurezza alimentare e malnutrizione, e la chiusura delle scuole, ha scatenato enormi problemi psicologici. I bambini ne pagano le conseguenze. La nuova generazione – se non facciamo niente – si porterà dietro tutti questi traumi. E può essere soccorsa solo dalla comunità internazionale».
Un concetto ribadito da Chris Nyamandi: «La soluzione non può essere trovata solo in Afghanistan, è nelle stanze del potere dei leader politici internazionali. Se non forniscono finanziamenti umanitari immediati, se non si rilancia il sistema bancario tagliato fuori dal sistema finanziario mondiale (a causa del congelamento delle riserve di 10 miliardi di dollari da parte degli Usa, ndr), se non si sostiene l’economia, sempre più ragazzi e ragazze perderanno la loro infanzia».
Tutto vero, ma qui sorge il gigantesco paradosso. È corale la richiesta di aiuto proprio a quell’Occidente, che i talebani odiano, che hanno combattuto e combattono. Il portavoce del Ministero del Vizio e della Virtù, Akif Muhajir, intervistato dalla Deutsche Welle ripete le accuse contro la Nato e gli americani: «Per vent’anni ci hanno distrutti con la guerra e le bombe, ora ci strangolano con le sanzioni».

Bambini afgani raccolgono carote; non c’è molto di più da mangiare (foto di David Mark)

Mi si consenta un ricordo personale: sono stato in Afghanistan per il Corriere della Sera, il giornale dove lavoravo, 10 volte tra il 2003 e il 2006, per lunghi periodi, prima, durante e dopo le prime elezioni democratiche del 2004. Il Paese era controllato dalle forze militari internazionali. Già allora gli americani erano malvisti perché si rivelavano solo macchine da guerra, incapaci di conquistare i cuori e le menti degli abitanti, come si erano prefissi. Obiettivo raggiunto invece da altri soldati, soprattutto dagli italiani. I nostri connazionali con le stellette hanno interpretato in modo positivo il loro ruolo di peacekeepers e non di semplici e tradizionali combattenti contro un nemico che voleva tornare al potere. Hanno distribuito aiuti, costruito strade e scuole, dialogato con i capi villaggio, curato la popolazione. Aiutato le donne a sentirsi più libere. Ricordo Jamila Mujahed, che dopo la caduta dei talebani fondò Radio Donna e la rivista Malali, entrambe per le donne; ricordo le tante giovani intervistate che esultavano perché non si sentivano più in un Paese prigione. Ricordo nel 2005 il dottor Rawoufa Niazi, direttore della locale sanità pubblica che mi disse: «Nel 2004 ben 740 donne sono state ricoverate per “aver preso fuoco”. Alcune si erano bruciate spontaneamente per evitare matrimoni forzati, o una vita impossibile, altre erano state “incendiate” da loro familiari (maschi) perché giudicate cagne immorali».
Oggi l’Afghanistan sta ricadendo nel Medioevo. Libero ma in caduta libera. «Nonostante le sanzioni – ha ricordato la televisione araba Al Jazeera in un recentissimo documentario – gli Stati Uniti continuano a versare 720 milioni di dollari in aiuti umanitari, esenti dalle sanzioni». Ma non bastano. Se l’Afghanistan volta le spalle all’Occidente (e viceversa), la Cina è vicina. I bambini e i diritti umani possono aspettare.

Immagine di apertura: foto di Amber Clay

Nato e cresciuto in Sardegna, milanese di adozione, giornalista professionista dal 1973, alla sua carriera manca solo l’esperienza televisiva. Per il resto non si è risparmiato nulla: giornale del pomeriggio (La Notte), quotidiano popolare (l’Occhio), mensile di salute (Salve), settimanale familiare (Oggi), una radio privata per divertimento (Ambrosiana) e quindi 20 anni di “Corriere della Sera”, dove si è occupato di attualità nazionale e internazionale. Ha avuto anche un’esperienza di (mini) direttore per quasi due anni al Corriere, quando gli è stata affidata la responsabilità di “Corriere anteprima”, freepress pomeridiana. Laureato all’università Cattolica a Milano in Lettere Classiche, ma con una tesi sul cinema, ha provato a scrivere un libro (guida turistica) e non c’è riuscito.

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