Pavia 27 Aprile 2023
Dai dati di un’indagine svolta dall’Istituto Superiore di Sanità conclusa nel 2015, l’ultima che si possa considerare attendibile, in Italia ci sono 6,9 milioni di persone tatuate, ovvero il 12,8 per cento della popolazione italiana, percentuale che sale al 13,2 se si considerano anche gli ex-tatuati. Percentuali in crescita; ora sembra che il popolo dei “decorati in permanenza” abbia superato i 7 milioni. Siamo secondi solo agli svedesi e agli americani. «E pensare che un tempo si facevano tatuare solamente nobili, marinai ed ex galeotti – afferma Carlo Pelfini, decano dei dermatologi pavesi – per la necessità di distinguersi. Oggi l’inconscio collettivo ha portato al suo contrario, una completa omologazione. Ricordo che gli anatomopatologi toglievano da marinai e carcerati che casualmente capitava loro di dissezionare, i lembi di pelle tatuata per incorniciarli».

Nelle migliaia di anni che ci separano dall’invenzione dei tatuaggi, la pratica non è cambiata: consiste ancora nell’incidere ferite in forme permanenti e inchiostrate, che troviamo esteticamente piacevoli; le molecole di inchiostro introdotte con un ago nella pelle a qualche millimetro di profondità rimangono lì per sempre. Ma l’organismo considera inevitabilmente l’inchiostro come un elemento estraneo perché passa attraverso la pelle, la prima barriera del sistema immunitario. Allora perché non si verifica il rigetto? Il tema è dibattuto da tempo, ma secondo i ricercatori dell’Istitut National de la Santé et de la Recherche Médicale dell’Università di Aix-Marseille, coordinati dall’immunologa Sandrine Henri, l’elemento chiave che lo impedisce sarebbe legato all’azione dei macrofagi, le cellule “spazzine” della pelle pronte ad intervenire, divorandoli velocemente, contro ospiti indesiderati, siano questi virus, batteri o detriti cellulari. È il processo che permette alle croste di cadere e alle cicatrici di sbiadire. Ma con le molecole di inchiostro i macrofagi non ce la fanno – sono troppo grosse -, non riescono a digerirle e quando uno di loro muore (avviene nel giro di qualche giorno), l’ingombrante molecola viene fagocitata da un altro e così via. Potrebbe essere questo il meccanismo che tenendo perennemente impegnato il sistema immunitario, fa sì che il tatuaggio regga nel tempo e che, male che vada, scolorisca un po’ o i suoi bordi divengano più sfumati.

Uno studio pubblicato lo scorso anno ha messo l’accento sul fatto che essendo i macrofagi molto impegnati a ingoiare particelle di inchiostro potrebbero essere distratti dal loro lavoro principale, cioè liberare il terreno dai veri elementi patogeni e pericolosi. A meno che, secondo una ricerca condotta su persone pesantemente tatuate dall’antropologo Christopher Lynn, dell’Università dell’Alabama, i tatuaggi frequenti non forniscano al sistema immunitario un allenamento regolare, a bassa intensità, e mantengano più in forma alcuni elementi del nostro armamentario difensivo.
La questione si è spostata ultimamente anche sui vaccini. La pelle, secondo Gary Kobinger, immunologo presso l’Università di Montreal, è il miglior mezzo per inoculare vaccini ma oggi essi vengono iniettati in profondità, dove tuttavia c’é scarsità di cellule immunitarie. I dispositivi per il tatuaggio potrebbero essere equipaggiati di fiale di vaccino e facilitare moltissimo l’inoculazione risparmiando in quantità e in numero di interventi.

Ma che cosa ne pensano gli esperti di casa nostra? «La pelle tatuata è illeggibile – afferma, totalmente negativa, Anna Colombetti, chirurgo plastico all’Istituto tumori di Milano, Responsabile della struttura di Laserterapia –; non si possono diagnosticare agevolmente patologie cutanee che producono segni estetici caratteristici sulla cute. Del resto dal punto di vista professionale giungono alla mia osservazione solo tatuaggi finiti male: cheloidi, infezioni o carcinomi». Anche se in effetti, le infezioni sono abbastanza rare, si verificano nel 5-6 per cento dei casi, viste le attuali precauzioni igieniche. Ma Anna Colonbetti sottolinea di pensarci bene prima di attivare un tatuaggio. Per prima cosa il soggetto della “decorazione”: un cuore con il nome del o della partner può essere soggetto a variazioni nel tempo. In seconda istanza scegliere bene la zona anatomica da tatuare. Un tatuaggio a collare può essere bellissimo a vent’anni, ma dare a settanta qualche problema difficile da risolvere.
«I tatuaggi sulle sopracciglia o sulle palpebre sostituitivi del trucco – aggiunge Colombetti – possono scolorire e perdere nitidezza, e sono molto difficili da cancellare con il laser. E non dimentichiamo che quando la schiena viene totalmente occupata con un cosiddetto “tribale”, che rende impossibile la diagnosi di eventuali carcinomi, si crea una situazione potenzialmente pericolosa».

«I tatuaggi più problematici – precisa Marco Zavatarelli, dermatologo libero professionista a Pavia – sono quelli in cui viene utilizzato il colore rosso. Spesso danno origine a un cheloide, sorta di cicatrice rilevata simile a quella da ustione. Inoltre si può verificare una reazione allergica di tipo “eczema da contatto” con rigonfiamento della cute e, a seconda della localizzazione anatomica, difficoltà alla deambulazione e dolorabilità. Assolutamente da evitare la parafenilendiamina, un colorante nero utilizzato per le tinture dei capelli che è cancerogeno. Alcuni soggetti, inoltre, vengono sbadatamente tatuati sopra un nevo, creando problemi di diagnosi perché diviene impossibile controllarne l’eventuale evoluzione maligna».
Tutti d’accordo; sta di fatto che ancora non si è capito perché i tatuaggi, ahimè, hanno così lunga vita. E questo di certo non scoraggia gli appassionati.
Immagine di apertura: foto di Herco Roelofs