Firenze 26 Ottobre 2021
In un mondo che cambia grazie alle continue scoperte scientifiche e agli inarrestabili progressi della tecnologia, si va verso una mutazione antropologica e sociale. Tra i cambiamenti più importanti della nostra epoca si registra l’aumento dell’aspettativa di vita con conseguenze che si possono definire rivoluzionarie, sia sul piano individuale sia sul piano sociale ed economico. I progressi della medicina, le terapie più efficaci e soprattutto le migliori condizioni igieniche nelle società più avanzate (non a caso nei Paesi in via di sviluppo il fenomeno non esiste), sono tra i fattori più importanti dell’allungamento della vita.

L’invecchiamento della popolazione in Occidente delinea una prima conseguenza sul piano economico: gli Stati si trovano impegnati a investire le proprie risorse nella spesa assistenziale e nel pagamento delle pensioni per una popolazione non più produttiva.
Sembra che la longevità, cui tutti aspiriamo (chi di noi non desidera vivere a lungo?) se diventa fenomeno di massa, come sta accadendo adesso, rischi di diventare un fattore destabilizzante per l’organizzazione sociale. Andrew J.Scott e Lynda Gratton, docenti alla London Business School, autori di La nuova longevità, “un modello per prosperare in un mondo che cambia”, edito da FrancoAngeli, si impegnano a rivoluzionare il modo di guardare agli anni che passano. L’invecchiamento, secondo i due economisti inglesi – la Gratton nel 2011 fu inserita dal Times fra i primi 15 teorici di economia più influenti del mondo – , non va visto più come un problema per la società in termini di costi per pensioni e sanità, ma come una opportunità per una vita ancora produttiva e gratificante.

D’altro canto, è ormai ampiamente dimostrato che il cervello con i suoi miliardi di cellule (neuroni) e un numero incommensurabile di connessioni (sinapsi) tra questi, ha la capacità di adattarsi, di mutare, anche in presenza di condizioni non sempre favorevoli. È la cosiddetta “plasticità cerebrale” di cui siamo dotati tutti in presenza di un’adeguata stimolazione ambientale. Quale migliore stimolo, allora, se non quello di continuare a lavorare superando l’età canonica del pensionamento? Conditio sine qua non è il mantenimento di un buono stato di salute che ci permetta di lavorare con energia ed entusiasmo facendo dono agli altri della nostra lunga esperienza, mantenendo così alta la nostra autostima e la nostra identità. La prevenzione svolge in questa prospettiva un ruolo primario, non in termini di esami e controlli medici continui (di cui abusiamo con un carico eccessivo sul Sistema Sanitario), ma di uno stile di vita che metta al centro il movimento e una dieta equilibrata. Ormai si vive a lungo e si invecchia più tardi, un dato di fatto su cui la società deve riprogrammarsi per offrire opportunità alle persone mature. Da occupazioni part-time che possano contribuire al mantenimento di un certo reddito e a pagare le tasse, al lavoro di sempre se siamo liberi professionisti.

Pensare e programmare un lavoro per il dopo il pensionamento per “quello che farò da grande” è possibile se abbiamo investito nel corso della vita nella prevenzione e quindi nel mantenimento della salute. Ma anche se siamo riusciti ad abbattere una serie di stereotipi antichi, ma tuttora presenti nell’aria che respiriamo, quale la vecchiaia come malattia e non, invece, come privilegio che ci siamo costruiti e come opportunità da vivere fino in fondo contribuendo ad una società economicamente più sana. Secondo Scott abbiamo ” inventato” l’adolescenza e la vecchiaia, oggi dobbiamo immaginare altre età, quella che esce dalla media ma può essere ricca di benessere emotivo nei rapporti con le generazioni che la precedono. L’età di chi ancora può sentirsi utile nonostante abbia superato le più ottimistiche previsioni statistiche grazie all’elisir di lunga vita che è il lavoro. Purtroppo per ora la mentalità comune in Italia, condivisa sia dalla politica che dalle istituzioni, è ben lontana dalle idee dei due economisti; nessuno sembra accorgersi del cambiamento epocale in atto nella nostre società avanzate.

Ancora prevale un’idea assistenziale della vecchiaia, con le conseguenze che vediamo tutti i giorni in termini di spesa per lo Stato e di squilibrio fra le generazioni. E il lavoro non è visto certo come l’elisir di lunga vita, anche se poi dopo avere raggiunto l’agognato pensionamento, l’80 per cento degli italiani si sente inutile e spesso va incontro a depressione.
Immagine di apertura: una persona anziana ancora al lavoro al computer, un’eresia? (foto di cottonbro)