Roma 27 Settembre 2022
Molti visitatori si saranno stupiti di trovare un padiglione mongolo all’ultima biennale di Arte Contemporanea a Venezia. Opere con contenuti sciamanici e buddisti, con il richiamo costante al nomadismo e alla terra, ma comunque in linea con la Mongolia di oggi, un Paese sospeso tra la modernità con tutte le sue complicazioni e una tradizione millenaria, politicamente pacifista, ma un vero vaso di coccio tra due superpotenze confinanti: Russia e Cina.

Un paese singolare, grande come tutta l’Europa occidentale e orientale, ma privo di accessi al mare: un enorme altopiano che va dalle steppe agli oltre 4mila metri delle catene montuose, con soli 3 milioni e mezzo di abitanti, dei quali più di un terzo concentrato nella capitale Ulan Batoor. Questo il nuovo nome dato nel 1924 alla vecchia città santa, sede del Buddha vivente, mentre ancora oggi oltre il 30 per cento della popolazione è nomade e vive nelle caratteristiche geer, tende di legno e feltro che le famiglie montano aiutandosi fra loro in poco tempo; il resto in povere case costruite in mattoni riunite in piccoli villaggi.
Ulan Batoor significa “eroe rosso” in onore dell’eroe nazionale Subbatan che, combattendo al fianco dell’Armata Rossa di Lenin, liberò la Mongolia dalla odiata monarchia Manciù.
Nonostante il reddito pro capite estremamente basso, la popolazione è dignitosamente povera con un’alta disoccupazione giovanile ma con un livello di alfabetizzazione che supera il 95 per cento (oltre il 61 per cento è connesso ad Internet). In Mongolia esiste un prima e un dopo il 1992, data di indipendenza dalla Russia dopo l’annessione all’Urss nel 1924. In tutti quegli anni la Mongolia fu spogliata di grande parte delle sue foreste, vide la distruzione di oltre 900 monasteri, con un’economia bloccata nonostante il tentativo, da parte dei russi, di aprire industrie tessili ed alimentari e di formare cooperative per sviluppare l’agricoltura.

Oggi tutto questo è abbandonato, ad eccezione di circa 60 pozzi scavati nel deserto del Gobi per raggiungere l’acqua in profondità ed ancora oggi in uso. Mentre le vecchie miniere di oro, di rame e di carbone sono state riattivate dalla multinazionale anglo-australiana Rio Tinto le cui Royalties rappresentano la voce più importante del bilancio del Paese. La verità è che i mongoli sono un popolo che vive ancora di pastorizia, di allevamenti di cavalli, cammelli, mucche ed ovini. Nella cultura sciamanica non si mangiano né volatili né pesci, che appartengono all’acqua e all’aria, ed è scarsa la coltivazione di verdure (complice un clima che va da -40 gradi +40). L’alimentazione, quindi, è prevalentemente proteica: latte, latticini, formaggi e montone, cucinato in tutti i modi, dalle zuppe al ripieno dei loro ravioli. Questa dieta può forse spiegare la grande resistenza fisica del popolo mongolo che ha dato alla storia Attila (anche se molti storici sostengono che fosse del Kazakhistan), ma soprattutto Gengis Khan (1162-1227), il fondatore del più grande impero mai esistito che dalla Cina e Russia arrivava fino in Polonia.

Quello che affascina della Mongolia è l’immensità del paesaggio, ancora ben conservato e in gran parte selvagamogio, lambito per oltre 1300 chilometri dalla catena dei monti Altai, con il deserto del Gobi a Sud ed i grandi laghi a Nord. La Mongolia era il percorso indispensabile per i rami meridionali della Via della Seta, che partendo da Kashgan in Cina dove si congiungevano molte piste carovaniere, lambiva il lago d’Aral oggi praticamente scomparso, attraversava alcune oasi e poi il deserto del Gobi in Mongolia, uno dei più estremi al mondo, per poi diramarsi in molte direzioni arrivando fino in India, Corea e Giappone.

Si parla di circa 8mila chilometri di piste note e documentate dai Romani sin dal 104 d.C. (Svetonio) e mappate dal geografo tedesco Ferdinand Freiherr Von Richthofen alla fine dell’Ottocento. Il più straordinario di questi paesaggi, senza niente togliere ai laghi e le foreste del Nord è senza dubbio il deserto del Gobi che ha sempre appassionato gli ardimentosi; di recente (nel 2004), Reinhold Messner lo ha percorso a piedi; più prosaicamente Paolo Pirozzi nel 2007 l’ha attraversato con una Ducati 620, oggi c’è chi lo affronta in bicicletta o con moderne mongolfiere, ma il modo migliore di attraversarlo è con i moderni automezzi a quattro ruote accompagnati da un autista esperto oppure da soli dotandosi di affidabili strumenti gps. In Mongolia incontri la fauna più variegata: dal lupo, ai cervi, ai caprioli, agli stambecchi, alle pecore arvali, alle aquile, ai falchi, alle poiane fino ai resti dei dinosauri. Il paesaggio è sempre avvincente: dalle strette vallate di Yol dove in uno stretto canyon il ghiaccio è perenne, alle dune di sabbia finissima lunghe centinaia di chilometri di Khongoryn dette singing sands per il suono emesso nelle giornate di vento. Nella Yon Valley si trovano anche petroglifi dell’Età del Bronzo di 4000 anni a.C. scolpiti nella roccia che rappresentano scene di caccia animali e yak che trainano carri.

Si arriva poi alle famose rocce rosse dette Fleming Cliffs dove in località Bayazang dagli anni Venti del secolo scorso diverse spedizioni di archeologi, prima statunitensi poi russe, ora giapponesi e coreane, hanno scoperto il più grande sito al mondo di dinosauri del cretaceo, oltre 80 di cui una ventina ancora da scavare ed alcuni con le loro uova. I dinosauri trovati sono quasi tutti conservati nei musei di storia naturale di New York e di Ulan Batoor, ma qualcosa è rimasto anche sul posto nel nuovissimo museo (finanziato dai coreani) di Nugov.
Si può visitare il National Park Hustai con una flora spettacolare dove vive una delle poche razze al mondo di cavalli selvatici, i Przewalshii dal nome del geografo russo che li studiò.
A qualche centinaio di chilometri troviamo poi Karahorum, città ampliata da Gengis Khan che qui fondò la sua Capitale, dove si può ammirare uno dei pochi templi non distrutti dai russi, il monastero di Erdene Zuu costruito nel 1586 con 108 stupa (“monumenti delle reliquie”; 108 è il numero sacro del buddismo ed anche il numero dei grani che compongono il rosario buddista). Non troppo lontano si possono ancora riconoscere le rovine del grande monastero di Ong oggi in corso di restauro. Dopo tanta bellezza il ritorno ad Ulaan Batoor lascia perplessi, una città che in dieci anni ha moltiplicato il numero dei suoi abitanti con un traffico caotico, che si riscalda a carbone con enormi tubi che la attraversano e che nel periodo invernale ne fanno una delle città più inquinate al mondo.

L’amministrazione pubblica oggi punta molto sul turismo e sul ripristino della sostenibilità piantando ovunque alberi resistenti al freddo, ma la strada è lunga: la speranza è che le nuove tecnologie aiutino anche la Mongolia nella sua transizione verde.
Immagine di apertura: una famiglia mongola davanti alla sua tenda, la “geer”, di legno e feltro (foto di Kanenori)