Quali opportunità di emancipazione aveva una donna nell’Italia del Trecento? Praticamente nessuna, visto che era soggetta legalmente a un uomo, padre o marito che fosse, ed era destinata al focolare domestico. Eppure, alcune artigiane, commercianti, artiste ebbero un ruolo nell’evoluzione economica della società italiana e europea, nonostante i limiti che leggi e tradizioni imponevano alla loro libertà di azione. Un caso straordinario fu quello del “mercantesse” veneziane che a cavallo fra il XIV e il XV secolo nell’epoca d’oro della Serenissima, riuscirono a diventare imprenditrici, senza il giogo della subordinazione ad una figura maschile. C’era un’attività fiorente in quei tempi: l’arte del battiloro, che a partire da una foglia sottilissima d’oro, o d’argento, ordiva filati preziosi con cui si confezionavano stoffe (velluti, damaschi, broccati), o si ricamavano vestiti, tende, copriletto, borse, sciarpe, per lo più in seta. Arte raffinata, e redditizia, arrivata in laguna dall’Oriente: i prodotti, molto richiesti in una città tanto ricca, venivano anche esportati.

Per arrivare ad avere una foglia d’oro così impalpabile da essere filata bisognava battere incessantemente piccoli quadrati d’oro per molto tempo, anche due ore, con un martello di peso variabile fra i 3 e gli 8 chili (oggi a Venezia è rimasto un unico artigiano capace di farlo). Era un mestiere tipicamente maschile, regolato da una sua magistratura, molto potente, detta dei “Soprastanti all’arte della foglia d’oro”. La donna entrava in questo processo per la creazione dei filati d’oro e d’argento, lavoro che richiedeva pazienza e agilità manuale. La battitura avveniva a Rialto, sotto il controllo degli ufficiali competenti, mentre il filo si lavorava a casa. E qui si inserirono, diventando potenti, accanto ai mercanti, le mercantesse, riuscendo a dare lavoro a una nutrita schiera di lavoranti con ottimi guadagni. Lo rivela uno studio dei documenti e dei registri della Venezia dell’epoca di Paula Clarke, storica dell’Università McGill di Montreal in Canada. Quello di “mercantesse” fu uno status accettato in pratica, senza riconoscimento formale, cosa impossibile nel Trecento per l’universo femminile; dovevano comunque registrarsi all’Ufficio della foglia d’oro e pagare un’imposta annuale per esercitare il mestiere.

Fra loro, la più famosa (lo era già nel 1395) fu Lucia ab auro, vedova di Bartolomeo Franco, che sapeva scrivere e far di conto, cosa rara allora per una donna non aristocratica. Lucia comprava la foglia a un prezzo contenuto da un battiloro, Alberto di Francesco, con cui aveva stipulato un contratto in esclusiva e la dava a filare alle sue lavoranti. Guadagnò molto grazie all’aiuto di una schiava, Benvenuta dalla Tana, che riuscì ad abbattere i costi della manodopera seguendo le filatrici nel loro lavoro. Lucia, grata, la affrancò e la prese come socia, con il diritto, però, soltanto ad un quarto dei profitti. L’attività fu proseguita dalla figlia Franceschina, vedova sua volta. Insomma, una vera azienda di famiglia a conduzione e tradizione muliebre.
Un’altra storia interessante è quella di Luchesa di Paolo Morosini, patrizia veneziana che nel 1402 sposò uno dei più famosi banchieri di Rialto e nel 1422, rimasta vedova, si mise in società con suo cognato, Cristoforo Soranzo. Lui forniva i materiali, lei era responsabile della manifattura del filo d’oro; distribuiva la foglia alle donne che fabbricavano il filo. Comunque, anche se le scritture e la bottega erano a nome suo, Luchesa operava come una dipendente; il potere restava ben saldo nelle mani dei cognati. Un’emancipazione a metà, dove la condizione di vedova sembrava la sola che potesse consentire un minimo di autonomia.

Non era data la possibilità che una donna sposata svolgesse un’attività imprenditoriale? Forse fu solo l’eccezione che conferma la regola il caso di Pasqua Zantani, attiva nei primi decenni del Quattrocento, che ebbe dal marito, un ricco mercante dalmata diventato cittadino veneziano, il consenso ad agire in modo indipendente negli affari commerciali. La coppia non ebbe figli che sopravvivessero fino all’età adulta; quindi Pasqua aveva tempo da dedicare al lavoro. Visto che il marito era spesso assente per la sua attività commerciale, lei si occupava di tutte le fasi della produzione: nella sua bottega lavoravano diversi uomini, fra i quali un battiloro e un cospicuo numero di maestre filatrici. Aveva contatti con uno dei più importanti banchieri dell’epoca, Nicolò Cocco, ma anche con un mercante di Norimberga attivo a Venezia che la riforniva di oro e argento importati dall’Europa Centrale. Lei stessa teneva i libri paga perché sapeva leggere, scrivere e far di conto.
Il problema di Pasqua erano i finanziamenti. Non potendo disporre della dote, nelle mani del marito che non partecipava alla sua attività, doveva lavorare con i prestiti. Fra i finanziatori c’era il cognato, il patrizio Nicolò Falier che nel 1409 le dette 440 ducati, che riebbe con gli interessi due anni dopo. Pasqua creò anche una fitta rete di contatti con altre donne, patrizie che investivano nella sua azienda o che commerciavano l’oro filato, come la vedova di un immigrato senese, Agnese Corbizzi. Nel 1420, a seguito di ripetuti rallentamenti del mercato, si trovò in grandi difficoltà e fallì. Ciononostante continuò a lavorare fra mille espedienti. Una donna di carattere, che si fece strada in un mondo che le era negato, ma che pagò poi un prezzo molto alto.
Immagine di apertura: Il miracolo della Croce a Rialto, olio su tela, 1496, Vittore Carpaccio, Gallerie dell’Accademia, Venezia. Il ponte di Rialto che vediamo nel quadro era quello dell’epoca, in legno, che crollò nel 1524; la parte più alta era una passerella che veniva sollevata per far passare i velieri. L’attuale ponte, in pietra, fu costruito nel 1591