Milano 27 Aprile 2023
Il consumo di suolo è il prodotto insostenibile di un modello di sviluppo che testardamente vuole rimanere insostenibile. È un consumo che non cessa di crescere e preoccupare. Tante le cause. Dalla mancanza di una legge nazionale per la protezione dei suoli all’enorme debolezza della cultura ecologica in quanti hanno l’onere e l’onore di decidere che ci tiene incollati alle prime posizioni in Europa in fatto di insensibilità politica al tema del suolo. Di suolo e del suo consumo non se ne parla, non se ne discute e ci si permette pure di sfornare un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che neppur si premura di spiegare cosa sia la resilienza e si getta a capofitto nella distribuzione di finanze per interventi super consumatori (autostrade, alte velocità, impianti solari, accumulatori sparsi qua e là sui campi, etc.) senza prima fissare le regole sul consumo di suolo attraverso precise riforme.

Insomma, un PNRR che, per norma, prima apre le stalle e fa scappare le vacche e poi – forse – si occuperà di studiare porte e serrature. Nel frattempo il consumo di suolo fa numeri da capogiro perfino in aree ad alta sensibilità ambientale, quali quelle percorse da frane, alluvioni, sismi e incendi giusto per ricordarci l’ignavia amministrativa che si fa forte della debolezza dei vincoli urbanistici, della miopia della pianificazione territoriale sempre pronta a ogni compromesso pur di soddisfare il diavolo della crescita o dello sviluppo che dir si voglia. Lo stop al consumo di suolo è quindi ancora un miraggio mentre è il suo opposto è concreto come il cemento.
La conferma numerica ci arriva puntualmente dall’annuale rapporto nazionale sul consumo di suolo e la perdita dei servizi ecosistemici dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale e del Sistema Nazionale della Protezione Ambientale (ISPRA&SNPA, 2022). Dall’ultimo emerge che il tasso di consumo di suolo in Italia è salito a +22,4 per cento tra il 2021 e il 2020, ovvero nel periodo del lockdown, per intenderci. Altri 6.331 ettari di suolo sono stati cementificati a fronte dei 5.174 del periodo prepandemico.

Cemento al posto di campi agricoli, al posto di natura, al posto della biodiversità. Cemento perfino, come anticipato prima, nelle aree più esposte ai pericoli “ambientali” dove sicuramente qualche disastro accadrà appesantendo il bilancio di vittime e di spesa pubblica. Tanto per avere un’idea, nello scorso biennio 2019-2021, il 6,2 per cento delle nuove urbanizzazioni è stato fatto in aree a pericolosità di frana (+750 ettari). L’1,8 per cento addirittura in aree ad elevata e molto elevata pericolosità di frana (+217 ettari). E per le aree esondabili il bollettino è ancora peggiore visto che il 42,6 per cento del nuovo consumo di suolo è avvenuto proprio in quelle aree (+5.175 ettari) e addirittura il 5,1 per cento in aree ad elevata pericolosità idraulica (+614,5 ettari). Sono dati documentati e a disposizione di parlamentari, ministri, premier, sindaci, governatori, assessori, urbanisti, architetti, ingegneri, giornalisti.

Dati che tutti loro dovrebbero leggere e rileggere, fino a mandare a memoria, viste le responsabilità che hanno. Nel 2021 la soglia critica dei 2 m2/sec è stata oltrepassata. Tra il 2020 e il 2021 le regioni con il maggior valore di consumo di suolo sono state (ancora) la Lombardia (+883 ettari), il Veneto (+684 ettari), l’Emilia-Romagna (+658 ettari), il Piemonte (+630 ettari). Proprio quelle che da più anni ci affabulano con la loro cantilena di sostenibilità per dirci che hanno ottime leggi per arginare il consumo di suolo; sappiano, invece. che sono leggi che non hanno dato alcun risultato confortevole, quindi, tecnicamente fallite rispetto alle sfide ecologiche che abbiamo davanti.

La Lombardia è la testa di ponte del consumo di suolo con le province di Brescia e Bergamo che, da sole, hanno consumato tra il 2020 e il 2021 quasi quanto l’intero Lazio e i cui capoluoghi, per premiarli, li hanno eletti a città della cultura (non certo ecologica). Milano non ha voluto sfigurare in tale competizione di asfalti, distinguendosi con un consumo di quasi 19 ettari in un solo anno.
Che fare? Pochi stanno prendendo le cose sul serio mettendo mano ai propri piani urbanistici per ridurre le previsioni di cementificazione. Molti si illudono ancora che lo sviluppo (parola che ci inquina la mente) equivalga a spazzare decine e decine di ettari per far posto a enormi capannoni di logistica e a tutto il loro corredo folle di strade, rotonde, rampe, aree di sosta. Molti stanno cedendo alle richieste di astuti investitori green che vanno in giro per comuni, parrocchie e contadini alla ricerca di suoli agricoli piani e accessibili per appoggiarci sopra pannelli solari così da spendere poco e guadagnare tanto. Per non fare figuracce propongono un pugnetto di compensazioni green a forma di qualche centinaio di alberelli filiformi messi a dimora in campi limitrofi, a loro volta sottratti all’agricoltura.

A Vidigulfo, provincia di Pavia, nientemeno che Poste Italiane sta chiudendo i lavori di un maxi impianto logistico (i cui camion graveranno sulla rete stradale esistente, dimensionata per utilitarie) da decine di ettari agricoli ma che, per premio di consolazione, sta piantando un paio di ettari scarsi di alberelli. Detto in modo chiaro: se si vogliono produrre valori ecologici la via migliore è lasciare in pace la natura e in particolare il suolo, l’ecosistema più fragile e lento a riprodursi (10 cm necessitano di 2000 anni). Solo il suolo fa i “miracoli” di cui abbiamo bisogno ogni giorno per vivere: è il più formidabile regolatore climatico sottraendo per sempre più del 70 per cento del carbonio che gli arriva (alberi, cespugli e prati arrivano “solo” al 30 per cento); custodisce il 30 per cento della biodiversità appena nei primi 30cm di terra; arriva a trattenere quasi 4 milioni di litri d’acqua per ettaro (e quindi è un super argine alle siccità); dà da mangiare a tutti noi visto che il 95 per cento del cibo arriva dalla terra e il 99 per cento delle calorie giungono proprio da lì. Eppure continuiamo a vederlo come una superficie per posteggiare le nostre speculazioni e i nostri progetti brevi e fallaci: avremo vita sempre più breve. Il suolo è uno spessore vitale e un ecosistema fondamentale. Ma questo le leggi regionali e nazionali si guardano dal dirlo. E alla fine il circo che continua a consumare suolo tenta di cavarsela con qualche forestazione urbana, qualche depavimentazione, qualche alberello qua e là. Le città fanno a gara a piantar alberi (senza dichiarare quanti ne tagliano nel mentre) illudendo i cittadini che in qual modo ce la si può cavare. Seppur piantare alberi sia cosa apprezzabile, rimane il fatto che si tratta di una goccia nell’oceano e un inganno al clima e ai cittadini se nel frattempo non si ferma il consumo di suolo. Azioni che chiamano green, termine che manda tutti noi in confusione visto che nessun politico o urbanista parla di green per identificare la rimozione delle previsioni di aree cementificabili dai piani urbanistici. Ma è questa la vera azione politica da fare subito e in modo radicale. Oltre a eliminare il rumore di fondo della confusione delle informazioni, oltre a mettere in agenda una intensa e campagna di formazione ecologica per politici, urbanisti e decisori pubblici e privati.

Tornando alla moda del momento, la forestazione urbana, se la si vuole fare va onestamente detto che tali processi hanno bisogno di essere sottoposti alla validazione di un soggetto unico che certifichi come vanno le messe a dimora di alberi e arbusti. Dicendo con esattezza quanto si pianta, quanto si espianta e quanto muore oltre a “dove” si pianta, perché se si mettono alberi al posto di un prato permanente, per dire, sono forti i dubbi che si ottengano importanti vantaggi in termini di biodiversità. Piantare alberi e, nel frattempo, continuare a consumare suolo è come mettere sull’altare la contraddizione: questo è un altro motivo per affidare a un soggetto terzo la contabilità locale della coppia suolo & vegetazione. Lasciare che ogni comune conti da sé è evidentemente fallace e non porta risultati. Oggi dobbiamo solo fare bene e solo seriamente. Ma fare bene non vuol dire spendere soldi in fretta e male, come vuole il PNRR e i suoi sodali. Fare bene per la Natura, significa rispettarla e rispettare i suoi tempi, non i nostri. Significa togliere più che mettere. Significa smetterla di ragionare per perimetri comunali ma imparare a ragionare per scale territoriali ampie e idonee alla sfida ecologica. Quindi significa rivedere con coraggio le competenze dei politici locali. Questo ci chiede il futuro, ma questo non stiamo facendo e neppur lontanamente pensando. Ecco cosa c’è da fare: imparare a pensare ecologicamente dando voce a ciò che voce non ha.
Immagine di apertura: foto di Gerd Altmann
Al comando ci vogliono persone sensibili al problema ecologico, preparati e non attratti da facili incassi. Esattamente ciò che per ora in Italia non c’è.