Voghera 27 Maggio 2022
Il mondo arcaico contadino permeato di religiosità e la visione politico-sociale di Pier Paolo Pasolini, sublimata nella scoperta del marxismo («Gli istinti – posso chiamarli così – religiosi che erano in me mi portarono al comunismo. Sbagliai» estrapolando la frase dai suoi Saggi sulla letteratura e l’arte) ha movimentato La Ricotta. Il film, giudicato il suo migliore esito cinematografico, dove Pierpaolo Pasolini ci offre l’interpretazione più sofferta della sua poetica di cattolico impegnato con le contraddizioni del mondo. Il film uscì nel 1963 e fu tempestato dalle condanne di vilipendio alla religione ma lui – Dacia Maraini nel suo libro Caro Pierpaolo (Neri Pozza), conferma che era frenetico, non aveva tempo di fermarsi – stava già elaborando l’idea di farne subito un altro, ispirandosi ai Vangeli.

Nella sua ansia di documentarsi cercava di cogliere, andando a dialogare con persone ritenute “mistiche”, in odore di santità, le loro interpretazioni sulla vita di Cristo. Venne a sapere di Frate Avemaria (1900-1964), l’eremita cieco con fama di veggente che viveva da quarant’anni nella preghiera e nell’accoglienza spirituale a Sant’Alberto di Butrio, l’antica abbazia (la prima costruzione risale al 1030) edificata fra i boschi e le colline dell’Oltrepò pavese. Pasolini aveva bisogno di percepire in diretta l’aura mistica da cui il frate era circondato, secondo la devozione popolare dei semplici che vivevano in quei luoghi. Chi era questo frate? Al secolo Cesare Pisano, a dodici anni aveva perso la vista per una fucilata, ventenne era stato accolto tra gli Eremiti della Divina Provvidenza e dopo due anni era arrivato all’Eremo di Butrio dove visse dal 1923 al 1964 (anno della sua morte) conducendo una vita di preghiera e penitenza.

Pasolini decise di andare a trovarlo nella primavera del 1963, chiedendo di accompagnarlo ad Angela Volpini, la donna che nel 1947, bambina, si era acquistata fama per le ripetute visioni della Madonna fra i boschi di Casanova Staffora, borgo a pochi chilometri dall’abbazia. Dove si dice che Edoardo II d’Inghilterra, deposto dopo una congiura, fosse venuto a nascondersi. E a morirvi attorno al 1330. Pasolini si presentò a Frate Avemaria spiegandogli chi era e le ragioni della visita, ovvero chiedergli come “vedeva” Gesù come viene narrato nei Vangeli. «E come mai un grande artista, un personaggio tanto famoso è interessato a conoscere un povero cieco, che sa solo dire “Gesù Maria, vi amo: salvate le nostre anime!?”» furono le parole dell’eremita che dialogò con il regista per oltre due ore, prima di ritirarsi nella sua cella.
Pasolini volle proseguire la visita per rendersi conto dell’ambiente in cui Frate Avemaria viveva, esprimendo apprezzamenti per gli affreschi quattrocenteschi e per le architetture immerse in una natura rigogliosa.

E, ancora sotto l’influsso di quanto aveva recepito – è la Volpini a riferirlo – lo scrittore prese a esclamare: «Che posto! Che uomo! Che colloquio straordinario! Frate Avemaria mi ha riservato ogni attenzione. Parlava con tale naturalezza, pur nel suo linguaggio religioso, da risultare non solo rispettoso, ma affascinante. Non si è stupito del mio scetticismo e mi ha detto che il “suo” Gesù ama più i lontani che i vicini, che non si scandalizza di niente e che solo Lui conosce davvero il cuore umano. Di fronte a lui io, artista, non mi sono sentito, come succede spesso quando ci si trova in luoghi austeri e importanti, un po’ fuori contesto….Anche il frate è un originale come me, un creativo…Si è inventato una sua vita, strana per il buon senso comune, ma vera, affascinante. Anche lui è un figlio d’arte, riesce a trasformare in bella e straordinaria una vita che, analizzata razionalmente, è la morte civile e la follia».

Per far decantare la forte emozione, lo scrittore chiese di potersi appartare, rimanendo solo per qualche tempo. Dando modo alla Volpini di andare a ringraziare Frate Avemaria. Che le confidò: «L’amico che mi hai portato ha bisogno di vedere tanta fede, tanto amore, tanta innocenza, per far uscire dal suo cuore il suo grido d’amore, oltre che di denuncia. Stagli vicino. Se quest’uomo potesse servire il Signore, chissà che cose meravigliose farebbe!». E quando Pasolini, prima di andare via, venne a salutarlo, nell’accompagnarlo alla porta gli disse: «Voglio dirle che qui c’è un altro amico, che sa solo pregare, ma che pregherà tanto perché lei faccia cose bellissime!»
Pasolini completerà la sceneggiatura de Il Vangelo secondo Matteo e terminerà di girare nel 1964 avendo scelto di ispirarsi al Vangelo secondo Matteo, il cui autore è un anonimo cristiano della fine del primo secolo e che vede Gesù invitare i discepoli a praticare anzitutto il perdono. Il critico cinematografico Tullio Kezich scrisse: «È toccato a Pasolini, peccatore confesso, cattolico tormentato dal dubbio, marxista angosciato, di darci uno dei pochi film religiosi del cinema italiano».

All’inizio di quello stesso 1964, il 21 gennaio, Frate Avemaria aveva reso l’anima a Dio. Lo scrittore venne a saperlo diversi mesi dopo dalla Volpini. Alla quale fece recapitare il libro Poesia in forma di rosa, un vero e proprio romanzo in versi che aveva appena pubblicato nel giugno dello stesso anno.
Un foglio, inserito come segnalibro all’interno del libro, conteneva questo testo: E cerco alleanze che non hanno altra ragione / d’essere, come rivalsa o contropartita / che diversità, mitezza e impotente violenza / gli ebrei, i negri….ogni umanità bandita/ E questa fu la via per cui da uomo / senza umanità, da inconscio succube, o spia / o torbido cacciatore di benevolenza/ ebbi tentazione di santità. Fu la poesia.
Immagine di apertura: Pier Paolo Pasolini a Matera con Enrique Irazoqui che interpreta Cristo, durante le riprese de Il Vangelo secondo Matteo