Milano 27 Aprile 2023
La strage degli innocenti nelle guerre: madri e figli straziati nell’anima e nel corpo, segnati da violenza e distacco. Dopo il successo de Le assaggiatrici (Feltrinelli 2018 – Premio Campiello 2018), Rosella Postorino, scrittrice originaria di Reggio Calabria, cresciuta ad Imperia, romana di adozione, riparte dalla storia reale per costruire un romanzo sulla tragicità dei conflitti e dell’essere umano. Con Mi limitavo ad amare te, pubblicato da Feltrinelli, candidato al Premio Strega, Pastorino sceglie il conflitto serbo-bosniaco degli anni Novanta per narrare l’orrore della guerra attraverso le esperienze dolorose di madri e figli, vittime sacrificali della bestialità umana.
Il primo evento bellico in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale non distrusse soltanto città e annullò tradizioni di amichevole convivenza fra popoli di etnia e religioni diverse, ma violentò anche la quotidianità di adulti e bambini. Fa da sfondo, nella parte iniziale, la città di Sarajevo, piena di macerie e di umanità dolente che potrebbe richiamare alla memoria le immagini odierne dell’Ucraina.
«Il finestrino inquadrava palazzi crivellati, muri che snudavano lo scheletro di ferro………..non provò pena per l’uomo che rovistava nei cassonetti, per la vecchia con gli stivali anche se era estate che addentava cibo pescato tra i rifiuti».
Un episodio vero è il punto di partenza: il bombardamento dell’orfanotrofio Ljubica Ivezic di Bjelave (Sarajevo) il 18 luglio 1992, istituto che ospitava orfani, ma anche bambini lasciati lì da genitori travolti dalla miseria, che per varie ragioni non potevano prendersi cura di loro, o speranzosi di poter offrire loro uno spiraglio di vita.
Qui le esistenze di due fratellini, Omar, taciturno e introverso e Senadin, aperto e simpatico, si intrecciano con quella di Nada, detta “moncherino” per la mancanza di un dito e del fratello Ivo, suo angelo custode.
I due bambini sono stati spinti con la forza in orfanotrofio dopo l’abbandono del padre. Omar vive incollato alla finestra, in attesa delle visite materne che si fanno sempre più rade e un giorno viene definitivamente separato da lei da una granata. E della mamma non saprà più niente per 20 anni!
Nada e Ivo sono due “incidenti” di una prostituta, sparita poi dalla loro vita. I ragazzi si ancorano a vicende nella vita quotidiana, ma un giorno l’orfanotrofio viene bombardato e i bimbi trasferiti in Italia, grazie all’intervento delle Nazioni Unite; inizialmente per un periodo limitato, ma in seguito dati in affido, o in adozione. Sul pullman che li condurrà in terra straniera attraverso un viaggio pieno di ostacoli (stop continui, posti di blocco….) incontrano Danilo, un quattordicenne, volutamente mandato via da Sarajevo da genitori colti e impegnati, che intendono così garantirgli una vita meno difficile e pericolosa.
Ognuno parte con una lacerazione. I ragazzi non torneranno più a Sarajevo, come loro promesso, e, nell’arco di vent’anni diventeranno adulti, ma porteranno sempre dentro i segni del distacco, dell’allontanamento dall’affetto materno, dalla propria storia, dalle proprie radici, dalla propria lingua. Affronteranno la situazione dell’essere rifugiato in terra sconosciuta, dove non si capisce l’idioma e dove non è possibile esprimere la profondità delle proprie emozioni. «Rappresentavano un peso loro, per chiunque, per chi li aveva concepiti e per chi li aveva accolti quando erano diventati profughi».
Ognuno vivrà la tragedia in modo diverso, qualcuno si ribellerà, qualcuno si adatterà e avrà successo, qualche altro vorrà tornare a casa. Solo uno, chiuso nel suo dolore, cadrà nell’ abisso e troverà la salvezza nel supporto degli amici.
Tema forte è quello la maternità, già variegata nella sua tipologia umana e ancor più sfaccettata e sottoposta a cadute morali in periodi di guerra, quando a prevalere è l’istinto di sopravvivenza. Madri frustrate da povertà e abbandono dei mariti che scaricano i figli, mamme che mutilano le proprie creature, altre che si tolgono la vita per il troppo dolore, madri mancate che tentano di realizzarsi con l’adozione…
La guerra non è solo il flagello delle perdite umane, ma è soprattutto la morte dell’anima, il degrado fisico e morale degli individui, la negazione dell’infanzia e l’insorgenza di problemi psicologici nei giovani.
Il corpo della donna in una guerra è terra di conquista, è l’orrore dello stupro etnico che le donne serbe e non solo loro hanno subito e che ha generato figli di mostruosità. «Lo vuoi un altro bastardo? disse il militare spingendo il fucile tra le reni del padre che trasalì. Te la metto incinta io: bisogna piantare il seme dei serbi in tutta la Bosnia».
Romanzo storico, di formazione, realistico e poetico, che riesce a fondere i fatti della storia con la storia dei singoli, basato sull’essere tutti figli bisognosi di una madre che cura e che ama. È un racconto crudo e avvincente che raffigura il dolore in tutte le sue forme e presenta tutte le contraddizioni dell’uomo, che dà il peggio di se stesso in conflitti come in quello della ex Jugoslavia e in quello attuale dell’Ucraina.
Visione tragica quella della scrittrice sulla condizione umana basata essenzialmente sull’abbandono (abbandono del corpo della madre alla nascita, del nido familiare per diventare adulti). La guerra col suo distacco ne è il simbolo. Narrazione sentita, angosciante, commovente, curata nei particolari. La scrittura è precisa, forbita, talvolta però inadeguata ai pensieri dei protagonisti perché mal si sposa con la psicologia della loro età. Brani in corsivo intervallano il racconto come flussi di coscienza in cui l’orrore della guerra appare attutito da una scrittura poetica. Purtroppo le considerazioni filosofiche della scrittrice invadono spesso la narrazione, rivelando un eccessivo bisogno di esternazione personale nonché di compiacimento letterario.
E, come dice il titolo, che è la seconda parte di un verso poetico di Izet Sarajlic, storico e filosofo bosniaco – «cosa facevo io mentre durava la storia? Mi limitavo ad amare te» -, quando la storia ci travolge, tutto quello che possiamo fare è limitarci ad amare per continuare a sopravvivere.
Immagine di apertura: un bimbo fra gli edifici bombardati di Sarajevo nel 1992 (foto di Mario Boccia)