Milano 27 Maggio 2023

Descrivere la guerra in corso in Sudan come un conflitto tra due fazioni è limitativo e fuorviante. Certo, nel vecchio condominio anglo-britannico si scontrano le ambizioni di due generali: Abdel Fattah al-Burhan, Presidente del Consiglio Militare Sovrano di Transizione, e il suo omologo e vicepresidente dello stesso Consiglio, Mohamed Hamdan Dagalo detto “Hemetti”, uno dei cinque uomini più ricchi del Paese.

Abel Fattah al-Burhan, 63 anni, nato in un villaggio del Nord del Sudan, Presidente de facto del Paese, in una immagine del 2019

Collaboratori e amici, entrambi hanno costruito la loro carriera (e la loro fortuna) all’ombra del dittatore, e altro generale, Omar al-Bashir, ma assieme l’hanno rovesciato nell’aprile del 2019 dopo che il suo regime era stato minato da imponenti manifestazioni popolari.
Omar Al Bashir era salito al potere con un colpo di Stato il 30 giugno 1989. A sua volta aveva defenestrato il primo ministro legittimamente e democraticamente eletto tre anni prima, Sadik Al Mahdi. Quella di Al Bashir non è stata la prima dittatura. Dopo l’indipendenza, raggiunta nel 1956, nel 1969 il colonnello Jafar Nimeyri con un colpo di Stato (la “Rivoluzione di maggio”) cacciò il governo civile e si impadronì del potere. In questa operazione il militare (nel frattempo autopromossosi generale) venne aiutato dal partito comunista sudanese, secondo nel continente, per consistenza e organizzazione, solo a quello sudafricano.
In Sudan il partito comunista, fondato durante il periodo coloniale, nel 1946 ad Atbara, centro operaio delle ferrovie britanniche e teatro di importanti lotte sindacali abbastanza sconosciute all’epoca in Africa, è un’organizzazione semiclandestina che conta ancora un gran numero di aderenti. Godeva dell’appoggio incondizionato dell’Unione Sovietica che mostrava i primi interessi in Africa. Per contrastare l’avanzata di Mosca, gli Stati Uniti aumentarono i loro aiuti al Paese che passarono dai 5 milioni di dollari del 1979 ai 200 milioni del 1983 e poi a 254 milioni del 1985. Principalmente utilizzati per programmi militari. Il Sudan diventò così il secondo maggior destinatario degli aiuti americani all’Africa (dopo l’Egitto).

Gaafar Mohammad Nimeiri, Presidente del Sudan, all’arrivo negli Stati Uniti per una visita di Stato nel 1983

Washington ottenne il risultato sperato: Nimeyri cambiò cavallo e abbracciò il campo occidentale. Come ricompensa ottenne mano libera nella politica repressiva interna. In un Paese solo per metà musulmano, impose la Sharia. Ma non si limitò a chiudere la fabbrica di birra (la Camel Beer); permise al clero islamico di mettere pesantemente le mani sull’economia.
Il 6 aprile 1985, un altro colpo di Stato, realizzato dal generale Abd al-Rahman Suwwar al-Dhahab, estromise Nimeyri, ma il 6 maggio dell’anno successivo il potere passò a un governo civile. Primo ministro venne eletto Sadik Al Mahdi, suscitando grandi speranze. Speranze che durarono poco perché il 30 giugno 1989 con un nuovo colpo di stato incruento il generale Omar Al Bashir cancellò tutto e instaurò una giunta militar-islamista. Sono gli anni in cui in Sudan i laici vengono relegati all’angolo mentre cresce l’influenza musulmana. Bashir ospita Osama Bin Laden che organizza una cellula di addestramento di militanti di Al Qaeda a El Obeid, città 500 chilometri a sud della capitale Khartoum. Il Sudan, bollato come “Stato Canaglia”, subisce un pesante embargo da parte di Washington.
Nel 2003 scoppiò la guerra nella regione occidentale del Darfur dove convivono le popolazioni contadine di origine africana con i pastori delle tribù arabe. Tutti sono musulmani ma si combattono ferocemente.

Miliziani janjaweed, diventati ora “Rapid Support Forces” (fonte:AFP)

Il governo di Al Bashir appoggiò gli arabi e armò e organizzò le milizie janjaweed formate da tagliagole razziatori fuorilegge che di notte attaccavano i villaggi, bruciavano le capanne, ammazzavano gli uomini, stupravano le donne e rapivano i bambini per reclutarli nelle loro milizie. Molti dei capi janjaweed e lo stesso presidente Al Bashir vennero accusati di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e stupri di massa.
Il 9 luglio 2011 dopo decenni di guerra il sud del Sudan, cristiano animista, ottiene l’indipendenza, ma per il Sudan (a questo punto privato della sua parte meridionale) comincia un periodo travagliato: da un lato l’embargo economico degli Stati Uniti che limita fortemente ogni sviluppo e getta il Paese nelle braccia di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti e quindi accetta di buon grado l’influenza russa.
La profonda depressione economica, gli squilibri sociali dovuti alla competizione tra arabi e africani, l’aumento dei prezzi, specie quello del pane, generano scompensi collettivi che sfociano nelle pacifiche manifestazioni di piazza del 2019 e portano alla defenestrazione del dittatore Al Bashir da parte di Al Burhan e Dagalo.

Il vicepresidente del Sudan Mohamed Dagalo “Hemetti”. Nato nel 1973, membro della tribù Mahariya, è una delle persone più ricche del Paese grazie ad una vasta gamma di interessi commerciali (fonte: nigrizia.it)

I due generali promettono di cedere il potere ai civili il 1° aprile scorso. Promessa non mantenuta e il 15 aprile scoppiano le ostilità tra l’esercito regolare guidato dal presidente della giunta militare al Buhran e il consistente gruppo (si parla di 100 mila uomini) del vicepresidente Dagalo “Hemetti”.
Ma dietro di loro si schierano diversi Paesi che mostrano come il puzzle delle alleanze sia complicato e difficile da sbrogliare e come sul teatro sudanese si giochi un’altra guerra per procura dove sono coinvolti pezzi grossi internazionali e potenze regionali: a fianco del generale-presidente sono schierati gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, Egitto, il governo libico di Tripoli, mentre il sostegno agli ex janjaweed viene assicurato da Russia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e dal dissidente libico capo del parlamento di Bengasi, Khalifa Haftar. Da notare che per esempio in Libia Stati Uniti e Arabia Saudita appoggiano il fronte opposto a quello scelto da Egitto ed Emirati.
Una nota a parte merita l’Italia. Qualche anno fa nella sua campagna contro gli immigrati Roma ha deciso di rivolgersi anche al Sudan offrendo supporto logistico e finanziario in cambio di uno stretto controllo delle frontiere per impedire ai migranti di passare. Khartoum ha accettato mettendo a disposizione i paramilitari ex janjaweed di Dagalo ribattezzati nel frattempo con il nome più accettabile Rapid Support Forces.

Migranti attraversano il Sudan (foto di Combonianos brasil)

Incurante degli avvisi di chi conosceva le gesta dei tagliagole, l’Italia ha fornito agli janjaweed gli aiuti necessari. Il 12 gennaio 2022 una missione guidata dal direttore dell’AISE, i servizi segreti del nostro Paese, Giovanni Caravelli, e di cui facevano parte il colonnello Antonio Colella, esperto in cyber security, e Nicoletta Gaida, presidente della NGO Ara Pacis Initiatives (che ci fa un’organizzazione non governativa assieme ai servizi segreti non è chiaro) sono sbarcati a Khartoum e hanno incontrato il generale Mohamed Hamdan Dagalo per concordare i programmi di formazione che si sono tenuti a El Obeid, nella vecchia base dove venivano addestrati i terroristi di Al Qaeda. Altre missioni dei servizi italiani si sono succedute nel tempo a Khartoum per assicurare il sostegno italiano a quello che poi sarebbe diventato uno dei protagonisti dell’attuale guerra civile. Tanto che un attivista della società civile sudanese ci ha accusato: “Avete creato un mostro”.
Già, perchè in quella base di El Obeid ad addestrare gli uomini di Dagalo c’erano anche i russi. Russi e italiani, dunque, assieme a formare la stessa armata. Inquietante!

Immagine di apertura: militari dell’esercito regolare sudanese (fonte: rivista Africa)

Milanese, laureato in chimica, è stato per trent’anni corrispondente de "Il Corriere della Sera" dall’Africa, dove ha visitato tutti i Paesi tranne sei. È stato autore di numerosi reportage esclusivi come la liberazione in Nigeria di due tecnici dell’ENI che si è fatto consegnare dai guerriglieri. Conosce il Sudan molto bene per esserci stato decine di volte, intervistando le persone più influenti del Paese. Per le sue inchieste sui traffici d’armi è stato chiamato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a far parte del panel degli esperti per l’investigazione del traffico d’armi in Somalia. Sempre in Somalia è stato sequestrato dagli islamisti. È stato rilasciato 72 ore dopo perché conosciuto dai più importanti capi jihadisti che lo hanno difeso. E' Direttore del quotidiano online "Africa-ExPress"

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