Milano 27 Gennaio 2022
Palma di Maiorca, nelle isole Baleari, è stato il buen retiro di Joan Mirò sessantenne – era nato a Barcellona nel 1893 – che nel 1929 aveva sposato Pilar, una donna dell’alta borghesia dell’isola. Ritornato in quel luogo nel 1956 trovò, fino alla sua morte (1983), una perfetta condizione di vita e d’ispirazione. Tutti gli artisti cercano un luogo ideale e uno studio (fatte salve alcune eccezioni come il caso di Maurizio Cattelan che può creare ovunque avendo oltretutto decentrato la sua produzione); per il grande pittore spagnolo questa ricerca fu particolarmente accurata e coincise con il sodalizio con l’architetto e urbanista Josep Lluís Sert, che conobbe nel 1937 quando quest’ultimo fu designato a progettare il padiglione spagnolo per l’Esposizione universale di Parigi e lo stesso Mirò fu chiamato a dipingere un murale.

Due anni dopo Mirò lo incaricò della progettazione del suo atelier, oggi diventato la Fondazione intitolata all’artista. Uno scambio di lettere fra lui e l’architetto (rifugiatosi negli Stati Uniti dove nel 1951 aveva preso la cittadinanza americana), testimonia quanta energia il pittore profuse in questo sogno che si concretizzò poi nel 1956. L’architetto Sert, collaboratore di Le Courbusier, aveva, del resto, ben introiettato lo stile del maestro, specialmente la vivacità dei colori primari da lui utilizzati nelle sue tele. Ai muri di cemento bianco egli accostò infatti elementi di legno gialli, azzurri e rossi. L’architetto concepì lo spazio in funzione dei tanti oggetti di cui l’artista si contornava. Gli bastava un passeggiata per tornarsene con qualcosa e depositarla nel suo atelier. Tutti questi elementi erano come muti compagni della sua creazione. Diceva Mirò: «Mentre lavoro, niente. Assolutamente niente. Non guardo il paesaggio, che è magnifico. Ci sono poche finestre e tiro le tende. Niente, niente, niente. Quello che mi eccita è questo: quella piccola macchia bianca sul pavimento. C’è chi si fa leggere poesie, testi, non so cosa. Nel mio caso è assolutamente da escludere. È quella macchia bianca che costituisce per me uno stimolo eccitante, incitante, quella rossa, questa nera (cammina da un punto all’altro). Quella tegola è stata rimossa e c’è già un lavoro che mi aspetta, un punto di partenza» (come racconta Carlos Barberá Pastor in Entre Son Abrines y Son Boter. Miró en Mallorca).

Intatto è il fascino dello spazio dove Mirò lavorò: pennelli e ciotole intrise di colori saturi, tele sui cavalletti, come se l’artista catalano non avesse mai lasciato quello stanzone pieno di luce, e stesse per arrivare. Tra sedie, quadri non finiti, pennelli, souvenir di feste, omaggi degli amici in visita e le due tute da operaio utilizzate da Miró e ancora appoggiate su una balaustra che si affaccia sul vasto salone, voluta dal pittore per avere una prospettiva diversa sulle opere. Il sogno di avere un proprio atelier costruito a sua misura l’artista lo aveva accarezzato fin da quando arrivò a Parigi, nel 1927, in rue de la Turlaque, trovando uno studio e subentrando a un altro spagnolo, Pedro Gallego. Ma a quell’epoca era un artista talmente squattrinato che poteva permettersi un solo pasto alla settimana, cibandosi di fichi secchi tutti gli altri giorni, masticando anche chewing-gum per attenuare i morsi della fame.

La giornata di Mirò era scadenzata come un orologio svizzero. La mattina si alzava presto e lavorava in studio. Poi, dopo il pranzo abbondante, irrinunciabile arrivava l’ora della siesta. Nel pomeriggio, lo sbrigo della corrispondenza con i suoi amici artisti di tutto il mondo, poi l’ascolto della musica e la lettura della poesia e la sera, dopo cena, ore e ore in poltrona a ripensare alle opere e ad immaginare il lavoro del giorno dopo. La sua vita seguiva ritmi e abitudini ripetitivi che risalivano a quando da ragazzo era costretto a tenere i conti per un ufficio nel centro storico di Barcellona, dove era nato. Il suo bisogno di ordine, rigore e disciplina lo costringeva alla fine della giornata di lavoro a rassettare tutto perfettamente, a lavare pennelli, chiudere i barattoli di vernice, pulire tutto….
Nel 1959, con la somma di denaro ricevuta dal premio internazionale Guggengheim per la pittura, l’artista comprò una casa colonica del XVIII secolo, attigua all’atelier Son Abrines costruito da Sert. Questa casa (Son Boter) diventerà un secondo studio; qui l’artista si compiacque nel disegnare una serie di bozzetti dipinti a carboncino sull’ultimo degli strati di calce che ricoprono le pareti.
Immagine di apertura: un murales dell’artista nella sua casa di Maiorca (foto di Francesca Pini)