Pavia 27 Novembre 2023

Le biografie dei grandi pittori contengono spesso pagine oscure, specchio di un temperamento particolarmente sensibile. Del resto senza questa dote un artista non sarebbe altro che un eccentrico imbrattatele di scarso valore. Tuttavia quando la sua arte non pare essere altro che un tentativo di fuga da un’esistenza insopportabile sorge irreprimibile una domanda: per essere geniali è indispensabile essere folli o, perlomeno, un po’ disturbati?

Hieronymus Bosch, “Il giardino delle delizie”, olio su tavola, 1480-1490, Museo del Prado, Madrid. Particolare dell’Inferno musicale: una cavità dentro l’uomo-albero ospita biscazzieri e ubriaconi

Nel 1872 Marco Ezechia Lombroso, alias Cesare Lombroso, psichiatra e antropologo, nella sua famosa opera Genio e follia scrisse: «È verissimo che nulla assomiglia più a un matto, sotto l’accesso, quanto un uomo di genio, che mediti e plasmi i suoi concetti». Hieronymus Bosch, Michelangelo Merisi (Caravaggio) e Salvador Dalì sono stati esempi sublimi di quel “genio e sregolatezza” che sembra caratterizzare i grandi artisti.

Demoni deformi, conchiglie ambulanti, pesci alati con zampe di quadrupede e frutti giganti. Avete già capito di chi si tratta. Questi sono gli argomenti preferiti dal più noto creatore di inferni che la storia dell’arte conosca. Il più grande visionario dell’intero panorama artistico mondiale: Hieronymus Bosch (1453-1516), pseudonimo di Jeroen Anthoniszoon van Aken. Per molti critici pur essendo noto quattrocento anni prima di Dalì o Magritte, il pittore fiammingo fu un visionario precursore del surrealismo, grazie al suo potere immaginifico in grado di entrare nel mondo dell’inconscio e della fantasia, che possedeva senza limite, fatto inspiegabile se confrontato con gli standard del suo tempo.

Hieronymus Bosh, “Il giardino delle delizie”, olio su tavola, 1480-1490, Museo del Prado, Madrid. I corpi dei dannati infilzati nelle corde di un’arpa (particolare dell’Inferno musicale)

Si è sospettato perfino il ricorso a funghi o erbe allucinogene, sicuramente note alla farmacopea del tempo. A dispetto di tutto ciò tuttavia il suo carattere era schivo e riservato e di lui si conosce veramente pochissimo. Ma a partire dal presupposto che il suo genio risiederebbe nella rielaborazione e riproposta, elevata all’ennesima potenza, di stili grotteschi preesistenti e tipici dell’iconografia medioevale nordica, come diavoli e draghi scolpiti o affrescati nelle chiese, si può dedurre il suo carattere psicologico indissolubilmente legato a tradizione e religione, ma con lo scopo di espiare i propri peccati. Non bisogna dimenticare che nel trittico de Il Giardino delle delizie alla vacuità del peccato rappresentato dalla folta schiera di corpi nudi, fa da contraltare la raffigurazione dell’inferno. Depressione e paura della morte la fanno da padroni. L’orizzonte notturno è arrossato da incendi senza tregua e senza nessuna speranza per il futuro. E ancora nel 1485 con il suo Ecce homo l’artista mostra Gesù, presentato alla folla da Pilato, come l’unico essere umano con un aspetto gradevole mentre tutti gli altri sono brutti, grotteschi e torvi.

Hieronymus Bosch,”Ecce homo”, 1476 circa, olio e tempera su tavola, Stadelsches Kunstinstitut, Francoforte

Altra ben nota manifestazione di stampo marcatamente depressivo, instillata dalla consapevolezza della profonda corruzione della Chiesa di Roma. Un quadro che traspira quella sensazione del “perturbante” spiegata da Freud quattro secoli più tardi. Se Bosch butta tutti i suoi incubi sulla tavola ritraendosi ossessivamente in se stesso, Caravaggio farà l’esatto contrario. Siamo a Messina sul finire del 1608. In una piccola chiesa fa irruzione un gruppo di gentiluomini a cui viene offerta dell’acqua benedetta. «A che serve?» domanda uno di loro. «A cancellare i peccati veniali» viene risposto. «A me non occorre perché i miei sono tutti mortali» replica sprezzante Caravaggio. Nato a Milano nel 1571, dopo un’adolescenza segnata dalla morte del padre e dei nonni paterni nella violenta epidemia di peste del 1576, all’età di 13 anni firma un contratto di apprendistato nella sua città presso il pittore Simone Peterzano.

Ottavio Leoni, “Ritratto di Caravaggio”, 1621 ca, carboncino nero e pastelli su carta blu, Biblioteca Marucelliana, Firenze

Dopo la morte prematura della madre, il pittore si sposta a Venezia, anche a causa del suo carattere “molto difficile” e alla frequentazione di cattive compagnie, come lascia intendere Giovan Pietro Bellori, suo biografo, essendo egli “di ingegno torbido e contenzioso”. Nel 1592 parte per Roma, dove rimarrà per quattordici anni. E lì l’anno seguente arriva finalmente l’occasione giusta. Viene preso a bottega dal pittore Giuseppe Cesari, il Cavalier d’Arpino, cominciando così a sviluppare il suo stile personale. Deciso a farsi strada da solo, conosce il cardinale Francesco Maria Del Monte che, colpito dal suo stile, diventerà suo committente e protettore. Sul finire del Cinquecento gli eredi del cardinale francese Mathieu Cointrel (Contarelli) lo incaricano di eseguire un ciclo di dipinti per la loro cappella gentilizia nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Così nel giro di due anni il pittore sfornerà i suoi più grandi capolavori: La vocazione di San Matteo, San Matteo e l’angelo e Il martirio di San Matteo. A complicare la situazione rimaneva il suo carattere litigioso, permaloso e attaccabrighe e il fatto che non onorava gli impegni dopo aver ricevuto diversi anticipi da committenti prestigiosi. Atteggiamento che rispecchia una sorta di tentato suicidio lavorativo.

Caravaggio, “Il martirio di San Matteo”, 1599-1600, olio su tela, Chiesa di San Luigi dei francesi, Roma

Nel 1608 durante una partita a pallacorda (l’odierno tennis) ferisce mortalmente il nobile Ranuccio Tomasoni. Fugge a Malta dove viene fatto Cavaliere di quell’ordine, ma anche qui tenta di segare il ramo su cui è seduto ferendo un confratello di nobile lignaggio, Fra Giovanni Rodomonte Roero, conte della Versa, che apparteneva ad uno dei gradi più alti dell’Ordine. Arrestato e rinchiuso a La Valletta, fugge riparando in Sicilia e a Napoli, in attesa del perdono papale che puntualmente gli giunge nel 1610. Si imbarca allora per Roma, ma è costretto a sbarcare a Porto Ercole dove muore in preda a febbri e dolori il 18 luglio, vittima, secondo ultime ricerche sui resti del corpo, più che di una malattia di un complotto ordito dall’Ordine e dalla Curia Romana stanchi di un personaggio divenuto troppo ingombrante. Le sue opere piene di luci e ombre straordinarie riflettono i tratti tipici del “Disturbo borderline di personalità” caratterizzato da intensa instabilità e conflittualità nelle relazioni personali, disgregazione emotiva, comportamenti autolesivi e impulsività.

Riccardo Scamarcio nei panni di Caravaggio nel film “L’ombra di Caravaggio”, regia di Michele Placido

Salvador Dalì (1904-1989), eccentrico, cinico, imprevedibile e diabolicamente bravo nacque a Figueres, in Catalogna. Dopo una giovinezza agiata e studi d’arte a Madrid e Parigi si preparava a diventare un dandy sfacciato e manipolatorio con l’intento di fare della sua vita un’opera d’arte. «L’unica vera differenza che passa tra me e un folle è che io non sono folle» è una delle sue frasi preferite. Il giovane artista, divenuto nel frattempo amico del regista Bunuel e di Picasso affermava: «Al mattino, quando mi sveglio provo un piacere estremo di essere Salvador Dalì». Assetato d’oro e di gloria secondo Gilles Néret, storico dell’arte, giornalista e curatore museale, ha dipinto molto ma ha anche parlato molto, specie di come si diventa un genio. La sua conclusione era: «Oh Salvador, ora lo sai, se giochi a fare il genio lo diventi». Il suo è un delirio che si ripete di tela in tela, sia negli orologi molli che colano come il camembert sognato dal pittore sia nelle innumerevoli uova al tegame senza il tegame.
Il tutto cucinato con una tecnica pittorica che eguaglia gli artisti seicenteschi come Velàzquez. Tuttavia ci si può stufare anche della genialità, come dimostrerà il poeta surrealista André Breton che nel 1936 decretò la fine del loro sodalizio intellettuale anagrammando il suo nome in Avida Dollars, a causa dei suoi eccessi e manie di grandezza e di protagonismo.

Un ragazzo al MoMa di New York di fronte a “La persistenza della memoria”, olio su tela dipinto da Salvador Dalì nel 1931 con i famosi orologi molli

Nevrosi e psicosi sono spesso curabili o gestibili mentre la perversione no. Con un colpo di coda improntato alla saggezza Dalì negli anni Settanta affermò: «Non sono io il clown, bensì questa società mostruosamente cinica e così ingenua e incosciente che gioca a fare la seria per nascondere meglio la sua follia». In questo caso il “Narcisismo patologico” ha caratterizzato la vita del pittore con richieste eccessive di ammirazione e di attenzione per le sue, vere e presunte, qualità speciali; unito alla mancanza di empatia e a una forte tendenza alla manipolazione degli altri individui.

Immagine di apertura: Salvador Dalì in una celebre foto del 1972 a Parigi, ritratto da Allan Warren

Nato a San Giorgio di Lomellina, ma pavese di adozione, si è laureato in Filosofia e Psicologia a Pavia, dove ha risieduto dal 1975 al 2015, mantenendo attività clinica e didattica e dal 1999 è stato docente di "Tecniche di riabilitazione psichiatrica" nell'ateneo pavese. Psicoanalista e Arteterapeuta, allievo di Sergio Finzi e Virginia Finzi Ghisi è membro dell'associazione "La Pratica Freudiana" di Milano, dove dal 2000 ha tenuto seminari. Fondatore di "Tracce di Territorio", associazione no-profit con sede in Lomellina, è tra i promotori di gruppi di studio di Psicoanalisi e laboratori di Arteterapia. Ha pubblicato con Selecta : "L'insonnia", "Problemi etici in psichiatria", "Guida illustrata ai farmaci in psichiatria" Disegnatore anatomico, ha lavorato per diversi ospedali e per il "Corriere della Sera". Le sue opere sono state esposte recentemente nelle sale del Museo per la storia dell'Università di Pavia.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.