Milano 27 Marzo 2024

«Abbiamo un limite in comune, siamo tutti fragili e vulnerabili. Eppure, dobbiamo sopravvivere alla vita, ai lutti, ai dolori che non ci lasciano mai. Anche se la nostra unica eredità sono le ferite». Lo dicono gli psicologi, lo ha ripetuto, recentemente, il Papa. Ce lo ricorda in modo duro, straziante, Donatella Di Pietrantonio, che dopo il successo de L’Arminuta (Premio Campiello 2017) e Borgo Sud (finalista Premio Strega), torna in libreria con L’età fragile, edito da Einaudi.

La copertina dell’ultimo libro di Donatella Di Pietrantonio, “L’età fragile”, pubblicato da Einaudi

Il titolo dell’ultima fatica letteraria della scrittrice abruzzese rischia, però, di essere fuorviante: potrebbe far pensare ad un perimetro di esistenza connotato da una particolare vulnerabilità. In realtà nel libro emerge la fragilità umana come componente stessa dell’individuo, che può segnare ogni età e che accomuna i personaggi della storia. Protagonisti sono i rappresentanti di tre generazioni. Figlia, madre, nonno. Amanda, la figlia, alle soglie del lockdown, torna con l’ultimo treno da Milano, città dei suoi studi e delle sue aspirazioni, nel paesino abruzzese da cui è scappata un anno e mezzo prima. Ad attenderla la mamma Lucia (l’io narrante del romanzo), che avverte subito il suo cambiamento rispetto alla gioiosa e liberatoria partenza. La ragazza è spenta, depressa e oppone un mutismo ostinato alle poche e timide domande materne. Porta in sé sicuramente un traumatico segreto, che non svela. Lucia ne capisce la sofferenza, ma non trova la strada per agganciarla; diventa allora insicura nei suoi confronti, si colpevolizza per le sue assenze e debolezze, pur dettate dal rispetto per l’autonomia e la libertà della ragazza. Ben più dura è stata la sua esperienza di figlia cresciuta all’ombra di un padre -patriarca inscalfibile – che l’amava, ma la opprimeva ed era talmente introverso da non riuscire a dimostrare l’affetto. Anche lei, come Amanda, si porta dietro un’enorme ferita, legata ad un tragico evento, accaduto trent’anni prima nella proprietà di famiglia, “Dente del lupo”, che oggi il padre le vuole lasciare in eredità. Lucia non vorrebbe ritornare in quel luogo, ma l’autoritarismo paterno e la richiesta di Amanda di venire a conoscenza del suo passato la spingono a smuovere il rimosso e a ricostruire quell’efferato delitto di fine agosto 1999.

Uno dei tanti pastori che in Abruzzo ancora negli anni Novanta passavano lunghi periodi con il gregge in montagna, spesso in totale isolamento (foto di pooyan eshtiaghi)

Due sorelle ventenni, ospiti del campeggio di Osvaldo, caro amico del padre, durante un’escursione, erano state uccise da un lavorante straniero al servizio di un pastore ruvido e solitario della Maiella. Il “fattaccio” aveva di colpo spazzato via la sua adolescenza felice, trascorsa lì in compagnia di Doralice, figlia di Osvaldo, l’aveva resa adulta in un baleno e aveva cambiato per sempre la sua vita e la natura stessa del luogo “ricco di prati verdi, ma sotto pieno di vermi”. Straziata anche la vita di Doralice che, presente all’orrore, si era salvata per un soffio dalla mattanza, ma solo nel corpo. Lucia l’aveva lasciata sola in quella circostanza, le aveva preferito le amiche cittadine di Pescara e poi, in seguito, non era stata capace di comunicarle il suo affetto e le sue scuse. Madre e figlia: due interruzioni di progetti di vita, due fragilità! In un’altalenante narrazione presente/passato, il vissuto che non si cancella, le ferite come eredità che sembra insanabile, temi universali e attuali si rincorrono.
Caro all’autrice, è l’annoso problema della genitorialità, irto di difficoltà soprattutto durante il percorso dell’autonomia, quando i figli “si perdono”, perché «vanno da soli e ci guardano spietati», «quando la sintonia con loro è solo un ricordo del tempo in cui erano bambini».
La figura di Lucia, smarrita di fronte alla chiusura della figlia e in preda alla paura di commettere passi falsi, rende bene quel senso di impotenza che prende tutti i genitori alle prese con figli in crisi che non comunicano.

Un’immagine recente di Donatella Di Pietrantonio. Nata a Teramo nel 1962 è dentista pediatrico. Vive a Penne, in provincia di Pescara. L’Abruzzo è una presenza costante nei suoi romanzi (foto di Jindrich Nosek)

La ricostruzione del “fattaccio” poi, realmente avvenuto negli anni Novanta, richiama l’attenzione sul femminicidio e sull’immigrazione straniera clandestina. L’assassino era stato un ventenne schiavo-pastore, «che non sapeva la lingua, zitto come tutti quelli simili a lui, con gli occhi freddi, un mostro col viso d’angelo». Il P.M., intervistato dopo il processo e la condanna, aveva ipotizzato come causa del folle gesto l’isolamento. «Viveva in simbiosi con le pecore, assisteva alla monta. Ha visto tre belle ragazze, ha voluto prendersene una». Il tutto in una natura aspra e selvaggia, bella per i ricchi ma non per chi deve lavorare. Emerge il duro mondo agro-silvo-pastorale dell’Abruzzo, grondante di fatica, dove ancora negli anni Novanta alcuni pastori vivevano in completa solitudine nei mesi estivi, prima della transumanza di dannunziana memoria, dove la natura che nutre è anche quella che può affamare. Lucia si era laureata proprio per affrancarsi dalla figura materna, che in quel mondo maschilista faticava nei campi senza mai essere padrona di denaro! Un mondo dove il silenzio e l’omissione si tramandano nel tempo. Ecco, l’incomunicabilità, il non detto è il tema che pervade tutta la storia, è l’eredità che viene lasciata di padre in figlio in una società rurale e provinciale come quella presentata dalla scrittrice. Ma questa società è legata alla sua terra magnifica e spaventosa e la vuole difendere dagli speculatori edilizi. Ed è sulla destinazione di “Dente del lupo” che finalmente madre e figlia ritrovano complicità e accordo. Lucia non accetterà le lucrose offerte di un imprenditore, rimetterà in sesto quel terreno volutamente dimenticato da tutti e riscatterà così i morti innocenti e la vita distrutta di Doralice.
Il romanzo è intenso, avvincente, ma un po’ troppo denso di storie da seguire. La commistione di esperienze legate a rapporti familiari, connotate da introspezioni e fatti realmente accaduti non sempre risulta ben distribuito e amalgamato nella narrazione.
Tuttavia, l’autrice con una scrittura cruda, essenziale e aguzza come la sua terra, riesce a ritagliare figure autentiche soprattutto femminili che resistono alle difficoltà della vita, riesce a far emergere tante emozioni e a trasmettere il peso delle relazioni familiari.

Immagine di apertura: Maiella, il monte Tavola Rotonda visto da Campo di Giove (foto di Davipar)

Nata a Noci (Bari) sull’altopiano delle Murge, è laureata in Lettere Classiche all’università Cattolica di Milano, città dove ha poi sempre vissuto e insegnato nelle scuole medie e in quelle superiori. Ama viaggiare, cucinare, frequentare i concerti, ma soprattutto leggere. E’ "un'appassionata" di parole scritte, soprattutto sulla carta e non su kindle.

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