Milano 27 Marzo 2024

Saranno trent’anni il 27 aprile prossimo dalle prime elezioni libere in Sudafrica. Se le aggiudicò con il 62 per cento dei voti l’African National Congress (ANC), il partito di Nelson Mandela, reduce nel 1990 da 27 anni di carcere, Premio Nobel per la pace e primo Presidente nero del paese. La sconfitta del National Party che, in rappresentanza della minoranza bianca, aveva perpetuato il sistema legalizzato di discriminazione razziale in vigore dal 1948, metteva ufficialmente fine all’Apartheid.

La bandiera del Sudafrica a partire dal 1994, anno della fine dell’Apartheid (foto di unserekleinemaus)

Ufficialmente, perché in pratica ondate di terrificante violenza avevano preceduto e seguito la giornata elettorale. Era una guerra civile spietata: linciaggi, esecuzioni sommarie e “il supplizio dello pneumatico”, quando alla vittima immobilizzata veniva infilato al collo un copertone pieno di benzina, cui veniva dato fuoco. Ma senza il lavoro di fotografi e cameramen che si inoltravano nei sobborghi insanguinati di Johannesburg, sarebbe stata una carneficina nascosta. E, in particolare, senza il coraggio di un quartetto di “testimoni” che sarebbe passato alla storia del giornalismo con il nome, forse un po’ fumettistico, ma a suo modo adeguato alle circostanze di Bang Bang Club. Erano quattro giovani fotografi, sudafricani (o cresciuti nella nazione arcobaleno) e bianchi, uniti dall’entusiasmo per la professione e da evidenti ragioni di sicurezza nelle missioni quotidiane che li portavano ad addentrarsi nella “terra di nessuno”, le township della metropoli.
Era soprattutto un conflitto fra neri: i sostenitori dell’African National Congress contro i migranti indipendentisti Zulu, schierati con l’Inkatha Freedom Party (IFP). Ma sul fuoco dell’odio reciproco soffiavano gruppi dell’estrema destra bianca, la polizia e quasi certamente lo stesso partito di governo, allarmato dall’ascesa di Mandela.

Kevin Carter (1960-1994), fotografo sudafricano, in uno scatto di Rebecca Hearfiled del 1993

I quattro ragazzi non erano consapevoli di rappresentare una squadra leggendaria, finché la rivista Living non dedicò loro una pagina e un soprannome “Bang Bang Paparazzi”. Non erano paparazzi, e nemmeno così esaltati. Rischiavano la vita tutti i giorni per portare alle agenzie di stampa internazionali, Associated Press, Reuters, e al principale quotidiano sudafricano, The Star, immagini impressionanti e indispensabili, da diffondere in tutto il mondo. Vada per Bang Bang club, semmai. Le loro firme apparivano in piccolo, fra parentesi, nelle didascalie: Kevin Carter, Joao Silva, Ken Oosterbroek, Greg Marinovich, ma le giurie dei premi per fotoreporter si accorsero presto di loro.
Il veterano del gruppo, Ken Oosterbroek aveva vinto tre volte il titolo di “Fotografo sudafricano dell’anno”, prima di perdere la vita ad appena 32 anni, il 18 aprile 1994. Mancavano nove giorni alle prime elezioni democratiche sudafricane. La ricostruzione della sparatoria nel sobborgo di Thokoza, ha concluso che fu colpito dal “fuoco amico” dei mal preparati militari della National Peacekeeping Force. Anche il 31enne Greg Marinovich, “il novellino” come lo chiamavano i compagni, restò ferito quel giorno, e la scampò di misura, soccorso da Joao Silva.

Ken Oosterbroek (1962-1994) il giovane fotografo che perse la vita a soli 32 anni nella sparatoria di Thokoza. Aveva vinto più volte il premio come migliore fotografo del Sudafrica

Mancava sulla scena Kevin Carter, 33 anni, che si era appena aggiudicato il “Nobel” della stampa: il Premio Pulitzer, per una foto pubblicata sulla prima pagina del New York Times, fonte di roventi controversie. L’aveva scattata l’anno prima, ma non in Sudafrica: ad Ayod, in Sud Sudan dove imperversava una catastrofica carestia. Mostra uno scricciolo umano, nero e scheletrico, accovacciato con la fronte appoggiata al suolo, sotto il sole cocente, mentre alle sue spalle attende placido un avvoltoio. Certo, era il potente simbolo della fame e della disperazione in uno degli angoli più dimenticati dall’umanità: ma chi era quella creatura? Che fine aveva fatto? Come si era permesso il fotografo di pensare a inquadrarla, invece di cacciare via il predatore e mettere in salvo la preda? Già consumato dagli orrori del suo paese natale, dagli stupefacenti con i quali cercava di dimenticarli e dagli eccessi di un’esistenza adrenalinica, Kevin Carter cambiò spesso versione: aveva allontanato l’avvoltoio, anzi l’animale era volato via da solo, comunque i militari che lo scortavano gli avevano proibito di intervenire e, a poche centinaia di metri, c’era un centro dell’Onu dove sarebbe stata alimentata. In realtà non conosceva la sorte di quella bimba, che lo aveva sconvolto perché gli aveva ricordato sua figlia, Megan, coetanea. Si era seduto sotto un albero a piangere.

“Child&Vulture”,”la bambina e l’avvoltoio”, la foto di Kevin Carter pubblicata dal “New York Times” il 26 marzo del 1993 che valse al fotografo il Premio Pulitzer

Meritava il premio, non tutte quelle accuse, e non soltanto perché la sua foto aveva provocato una cascata di offerte per le organizzazioni umanitarie che operavano sul posto: nel 2011, l’anno in cui uscì il film Bang Bang club, gli inviati del quotidiano spagnolo El Mundo” scoprirono che la bimba era in realtà un maschietto, Kong Nyong, che era riuscito ad arrivare al punto di distribuzione di cibo, si era salvato ed era vissuto altri 14 anni, prima di soccombere a non meglio identificate febbri.
Quando Oosterbroek fu colpito, Kevin dunque non c’era. Ma la fine dell’amico contribuì anche alla sua. Si uccise esattamente cento giorni dopo, collegando il tubo di scappamento all’abitacolo del suo pick-up. Lasciò un messaggio:«Raggiungo Ken, se sono fortunato».

Joao Silva nel 2011 alla Casa Bianca in un incontro con Barack Obama

Il Bang Bang Club non esisteva più. Greg Marinovich, anch’egli decorato da un Pulitzer a trent’anni, nel 1991, ha continuato a coprire conflitti in Bosnia e in Afghanistan, prima di passare alla regia. Joao Silva, oggi 58enne, ha proseguito il mestiere in Africa, nei Balcani, in Asia centrale, in Russia e Medio Oriente, prima di perdere entrambe le gambe, calpestando una mina antiuomo dalle parti di Kandahar, in Afghanistan, il 23 ottobre 2010. Decine di interventi chirurgici e due protesi, gli hanno permesso di riprendere il lavoro e di partecipare perfino alla Maratona di New York.
Marinovich e Silva hanno pubblicato nel 2000 il libro The Bang Bang Club, accolto con riconoscenza dell’arcivescovo Desmond Tutu, storico attivista contro l’apartheid negli anni Ottanta: «Uno splendido libro, devastante per ciò che rivela… abbiamo con voi un debito enorme».

Immagine di apertura: la grande statua in bronzo di Nelson Mandela a Johannesburg nella omonima piazza (foto di Misio)

Nata a Milano, giornalista professionista dal 1981, al "Corriere della Sera" dal 1989, ha lavorato per vent’anni come inviata speciale ed è stata corrispondente dalla Spagna dal 2007 al 2011. Prima di arrivare al Corriere, è stata cronista per sette anni al quotidiano del pomeriggio “La Notte” e per altri tre a “Il Giornale” di Indro Montanelli. Collabora con il settimanale “F” (Cairo editore) dalla Fondazione. Ha scritto per Mondadori due biografie: “Margaret Thatcher, Biografia della donna e della politica” (2019), vincitrice del Premio Giovanni Comisso 2020, ed “Enigma Evita, Storia della donna che ammaliò il mondo” (2022), su Eva Perón.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.