23 aprile 2020

I test sugli anticorpi anti Covid 19? Ognuno fa per sé. Le Regioni, come spesso avviene in Italia, si muovono in ordine sparso: chi concentrandosi su medici e infermieri, chi coinvolgendo anche le forze dell’ordine, chi scegliendo solo i test rapidi (quelli con la goccia di sangue dal dito), chi quelli che richiedono più tempo per dare i risultati (prelievo venoso), decisamente più affidabili. A Varese è avviata la sperimentazione di un test sulla saliva: rivoluzionario, se funziona. Resta il fatto che i test sierologici, capaci di dire chi è entrato in contatto con il coronavirus e ha sviluppato l’immunità, anche se non sappiamo per quanto tempo, restano un elemento chiave per la riapertura del Paese.

Uno dei tanti laboratorio impegnati nei test anti Covid 19 (foto di Michal Jarmoluk)

Ma quale test sarà scelto? Quello che risulterà più affidabile, a parte l’approvazione da parte delle autorità regolatorie che di questi tempi sono abbastanza di manica larga. In Gran Bretagna sono stati acquistati 3 milioni e mezzo di kit rivelatisi poi sul campo affidabili al 60 per cento. Troppo poco per garantire un “patentino di immunità”. Il rischio? Dare il via libera a “untori” con il benestare governativo.
La Regione che ha fatto più test finora è la Toscana: 80mila, in un programma di 140mila verifiche mirate su medici, infermieri, Rsa e forze dell’ordine. Ed è partito lo screening di massa con altri 400mila test. Il Veneto è pronto a partire con 70mila test, su personale sanitario e dipendenti della Regione. Il Lazio ne dovrebbe fare 300mila, a partire dai 60mila su sanitari e forze dell’ordine. E via così fino agli 8mila in Lombardia, una decina di Comuni da Cilavegna a Castello d’Agogna, e Liguria. Test sierologici per la ricerca degli anticorpi in tutti gli operatori sanitari dell’ospedale di Negrar, Verona.
E dopo i test, la patente di immunità per poter lavorare. L’idea è questa, ma il comitato scientifico vuole capire se realmente dopo aver contratto l’infezione si è immuni. E questo è ancora dubbio. Dubbia è anche la velocità di mutazione del virus, molto alta, ma va capito se è innocua o tale da far saltare l’immunità acquisita.

Una casa nella campagna islandese. L’isola con i suoi 360.000 abitanti si presta a studi di popolazione (foto di Valentina Zotova)

Una prima risposta arriva dall’Islanda. Sono stati resi noti i primi risultati di un mega-studio genetico che sta coinvolgendo l’intera isola: sembrano importanti e da una settimana sono al vaglio degli specialisti e dei governi di tutto il mondo. Lo studio è stato realizzato da un team composto da ricercatori della locale deCODE Genetics, operatori del Ministero della Salute islandese e dell’Ospedale Universitario Nazionale. I primi dati sono stati subito pubblicati sulla rivista americana New England Journal of Medicine e suggeriscono che il ruolo degli screening di massa per contenere il contagio potrebbe essere importante. L’obiettivo dello studio era indagare in modo dettagliato, effettuando test con un unico approccio molecolare, su come il virus si diffonde in una popolazione, nel caso specifico quella islandese di poco più di 360.000 abitanti, e identificare le misure di tracciamento e isolamento precoci per contenere l’epidemia. Il 43 per cento dei casi positivi identificati non aveva alcun sintomo al momento del test, risultato che conferma il timore che gli infettati asintomatici possano diffondere il contagio. Le donne sono risultate un po’ meno suscettibili all’infezione rispetto agli uomini (11 per cento contro 16,7 per cento), così come i bambini al di sotto dei 10 anni (6,7 per cento). Sono conferme scientifiche a quanto già osservato nelle zone più colpite. Riscontrate anche oltre 400 mutazioni del virus, e questo in poche settimane. Ancora non è chiaro, però, se le mutazioni sono in senso “cattivo” o in senso “buono”. Le ricerche continuano.
Il gotha della scienza in questo campo mette comunque dei paletti in un articolo appena pubblicato sulla rivista scientifica inglese Nature. I governi di tutto il mondo sono in trattativa per acquistare milioni di kit. Il problema è che le promesse dei test anticorpali Covid-19 sono state sopravvalutate. I kit stanno invadendo il mercato, ma la maggior parte non è abbastanza precisa per confermare se un individuo è stato esposto al virus. «Anche se i test si riveleranno affidabili, non possono, comunque, indicare se qualcuno è immune alla reinfezione. Ci vorrà un po’ prima che i kit siano utili quanto si spera – precisa su Nature David Smith, virologo clinico dell’Università della Australia occidentale a Perth –. Stiamo ancora raccogliendo le prove».
«Un test di alta qualità dovrebbe raggiungere il 99 per cento o più di sensibilità e specificità», dice Peter Collignon, microbiologo presso l’Università Nazionale Australiana di Canberra. Ciò significa che i test dovrebbero rivelare solo 1 falso positivo e 1 falso negativo per ogni 100 risultati positivi e veri negativi. Ma alcuni test sugli anticorpi già approvati e acquistati hanno registrato specificità solo fino al 40 per cento all’inizio dell’infezione. In un’analisi di 9 test disponibili in Danimarca, 3 avevano una sensibilità che variava dal 67 al 93 per cento una e specificità dal 93 al 100 per cento. «Senza test affidabili, potremmo finire per fare più danni che benefici», conclude Collignon.
Per avere l’immunità protettiva, il corpo ha bisogno di produrre un certo tipo di anticorpo, chiamato anticorpo neutralizzante, che impedisce al virus di entrare nelle cellule. Ma non è chiaro agli scienziati se tutte le persone che hanno avuto Covid-19 sviluppano questi anticorpi. Un’analisi In Cina su 175 persone guarite ha evidenziato che 10 di loro non avevano prodotto anticorpi neutralizzanti. Quindi, attenzione a promettere facili “passaporti d’immunità”. Piace ai politici, un po’ meno alla scienza.

Immagine di apertura: foto di Moo YuenSheng

Scomparso improvvisamente nel 2022, era giornalista e scrittore. Nato a Roma nel 1954, si occupava di informazione medico-scientifica e sanitaria dal 1976. Ha legato gran parte della sua carriera al "Corriere della Sera". Negli ultimi anni dirigeva URBES, primo magazine italiano che si occupa di salute nelle città. Insieme a Umberto Veronesi, ha scritto "Una carezza per guarire" (Sperling & Kupfer 2004), "Le donne vogliono sapere" (Sperling & Kupfer 2006), "L’eredità di Eva" (Sperling & Kupfer 2014), "Verso la scelta vegetariana" (Giunti 2011), "I segreti di lunga vita" (Giunti 2013), "Ascoltare è la prima cura" (Sperling & Kupfer 2016). Suoi anche "L’Artusi vegetariano "(TAM editore, 2016) e "L’orto di Michelle" (Universo Editoriale, 2017) scritto con Federico Serra. L'ultimo, “Il genio in cucina” (Giunti editore, 2019)

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