Firenze 27 giugno 2024

Si moltiplicano, in occasione del centenario dalla morte del grande scrittore praghese nato nel 1883, le biografie di Franz Kafka, tra le quali spicca quella monumentale (in tre volumi editi da Il Saggiatore) di Reiner Stach che si allontana da diversi stereotipi per calare lo scrittore in un contesto umano che lo rende più sfaccettato e perfino profetico. Una qualità che Franco Fortini aveva scritto nei suoi celebri “Capoversi” sull’autore praghese: «Franz Kafka è morto nel 1924. Potrebbe esser morto l’anno scorso ad Auschwitz giacché questo ebreo di Praga ha saputo in anticipo quello che noi abbiamo soltanto vissuto».

Franz Kafka e la sorella Ottla a Praga nel 1914 (fonte: Fine Art Images / ARTOTHEK)

Si direbbe, ad esempio, che avesse previsto la morte delle sue sorelle, ebree come lui, proprio ad Auschwitz quando aveva descritto ne La colonia penale il protagonista, legato a un tavolo di tortura, talmente consapevole di meritarsi la condanna a morte da manovrare le punte affilate dell’erpice che pende sul suo corpo nudo affinché sia lui stesso a disegnare il nome della propria colpa, accettando come incontrovertibile il proprio destino. Un destino altrettanto inevitabile al quale andò incontro Ottla Kafka, la sorella più amata da Franz. La donna, in qualità di sorvegliante di bambini ebrei internati in un campo di concentramento, il 9 ottobre 1943 fu inviata ad accompagnare da Theresienstadt a Auschwitz un gruppo di 53 bambini ebrei insieme ai quali, pochi giorni più tardi, sarebbe morta nelle camere a gas.
In questo clima di riscoperta di Kafka, un crescente interesse viene rivolto ai suoi romanzi più celebri, Il processo e Il Castello, e al racconto La metamorfosi da poco nuovamente tradotto da Anita Raja per Marsilio. Straordinario racconto nel quale tutto è racchiuso nell’incipit dove si legge che, dopo una notte di sogni inqueti, il protagonista Gregor “Samsa eines Morgens (..) fand er sich in seinem Bett zu einem ungeheuren Ungesiefer verwandelt”, si ritrova trasformato in un insetto.

Il racconto “La metamorfosi” di Franz Kafka, appena ripubblicato da Marsilio, con la traduzione di Anita Raja

Secondo Anita Raja, però, ”ungeheuren Ungeziefer” alla lettera significherebbe addirittura “bestia immonda e fuori misura” come gli animali impuri della Bibbia. La mutazione non è, dunque, in un semplice scarafaggio, ma in una corposo animale tanto che lo stesso Kafka, in una lettera dell’ottobre 1915 al suo editore Kurt Wolf, raccomandò di evitare nella copertina qualunque raffigurazione di insetto preferendo, invece, che da dietro la porta della camera apparisse il disegno dei genitori spaventati dalla angosciosa scoperta.
Che cosa continua, dunque, a dirci Kafka la cui lettura richiede sempre una precisa volontà di confrontarsi con una sensazione di malessere dal momento che le vicende narrate sono mosse da una “logica dell’assurdo”? Che nella vita, all’improvviso e a nostra insaputa, può presentarsi un elemento “straniante” (Freud direbbe “perturbante”) del tutto inammissibile e irrazionale rispetto all’ordinarietà della vita quotidiana (come l’arresto di un innocente come Josef K. ne Il processo)? Che siamo tutti sotto processo e condannati a morire per la sola colpa di essere nati? Che essere ebrei significa vivere in una grande colonia penale, gravati da una incontrovertibile colpa originale? Che nel legame con il padre, sia quello da quello da cui  si è nati sia da Dio, si è creata una distanza incolmabile che rende infelice la nostra vita?
Primo Levi, uno dei primi traduttori e interpreti di Kafka, ha lasciato detto che con Josef K., nome del protagonista dei suoi romanzi, si viaggia per meandri bui e vie tortuose che non portano mai dove ti aspetteresti, all’interno di un mondo dove tutte le attese vanno deluse. Le migliori opere di Kafka riescono a presentare vicende che, se non fossero tragiche, indurrebbero risate liberatorie per la loro assurdità.

Franz Kafka nel 1906 a 23 anni fotografato da Sigismund Jacobi

Kafka, a partire dalla propria vita, interpreta la condizione umana con un senso di smarrimento e di angoscia esistenziale. La sua scrittura limpida e realista è una sorta di narrazione allegorica che, mentre descrive una vicenda, dice anche “altro”. Questo “altro” resta indecifrabile e quindi indicibile come la solitudine, la diversità di un ebreo mitteleuropeo come lui, l’estraneità alla propria famiglia, l’impotenza di fronte alla burocrazia delle leggi e della giustizia. Uno scrittore “kafkiano” come Dino Buzzati ne Il deserto dei tartari ha detto che Kafka ha smascherato l’essenza più nascosta della cosiddetta realtà, banale e ridicola, facendola apparire come una “tragicommedia senza redenzione”. Del resto è stato lo stesso Kafka a scrivere, con aperta ironia, che «Dio è stato certamente benevolo con la Creazione, ma non altrettanto con noi».
Altri, come Mauro Cavacich, nel suo Kafka, edito da La nave di Teseo, gli imputa addirittura di aver tradito la sua quieta esistenza di impiegato delle assicurazioni contro gli infortuni «per dar sfogo all’istinto di usare il dolore del mondo per il piacere di scrivere». Per Kafka «scrivere non è conciliabile con una vita in famiglia, non è una passione da affiancare ai doveri borghesi, per non dire coniugali. È lo stigma del deragliamento e della solitudine».
Basterebbe citare al riguardo cosa ebbe a scrivere Milena Jesenskà – la donna che fu il grande amore di Kafka – nella lettera inviata a Max Brod il 6 giugno 1924 per l’elogio funebre di un uomo che lei aveva amato intensamente: «Era come un individuo nudo tra individui vestiti con la sua spaventosa chiaroveggenza, purezza e incapacità di scendere a compromessi».

Kafka con la fidanzata Felice Bauer nel 1917 (fonte: Mondadori Portfolio)

Nel libro di Reiner Stach Questo è Kafka?, pubblicato da Adelphi, ci sono due fotografie. In una lo scrittore è ritratto di spalle tra la folla con cappello e vestito di nero mentre a Montechiari osserva il decollo di un aereo, nell’altra solo e vestito di bianco a Merano. In entrambi i casi è più simile all’assicuratore che era di giorno che all’infelice scrittore notturno. In effetti egli aveva la ferita dell’inappartenenza, come scrive nei suoi Diari, di sentirsi ovunque “un inetto” davanti al padre autoritario che lo voleva vedere aitante, sportivo e soprattutto sposato. Era, invece, gentile e comprensivo nelle relazioni di vita sociale, specialmente con i giovani. «La gioventù – diceva – è felice perché possiede la facoltà di vedere la bellezza». Lo fu anche nei suoi rapporti sentimentali con Felice Bauer – come si legge nelle Lettere a Felice – fino al giorno in cui, scopertosi malato di tubercolosi, ruppe il fidanzamento, mentre quelli sessuali venivano risolti in frequentazioni casuali.
Con Milena Jesenskà, donna infelicemente sposata con un altro a Vienna e traduttrice di molti suoi racconti in ceco, Kafka ebbe l’unico vero, grande amore della sua vita che tuttavia non durò oltre un anno, ma produsse una sterminata corrispondenza sentimentale dove le appassionate e tormentate confessioni reciproche, raccolte in Lettere a Milena, sopperivano all’impossibilità di vedersi di persona.
Anni più tardi, nel 1923, durante un soggiorno sanitario sul Mar Baltico conobbe Dora Dymant, maestra ebrea osservante con la quale, lasciata a quarant’anni per sempre la casa paterna, andò a vivere a Berlino, studiando il Talmud e accarezzando perfino l’idea di trasferirsi un giorno con lei in Palestina.

La statua in bronzo dedicata a Kafka, opera dello scultore Jaroslav Rona, a Praga (foto di Myrabella)

Ma la malattia non gli lasciava ormai molto tempo da vivere dal momento che la morte lo colse di lì a poco il 3 giugno 1924.
Sei mesi prima aveva cominciato a scrivere La tana, un lungo e inquietante racconto nel quale il protagonista – non è dato sapere se uomo o animale – mosso dalla paura di un nemico invisibile costruisce, giorno dopo giorno, una abitazione perfetta e sicura perché scavata in un elaborato sistema di cunicoli senza che l’opera riesca a procurargli pace e tranquillità.
Un anno prima, nel suo diario, Kafka aveva annotato: «Corro in tutte le direzioni come un animale in preda alla disperazione» come dentro una “tana” che improvvisamente si rivela senza uscita. In questa sua rappresentazione dell’assurdo Franz Kafka, da cento anni a questa parte, ha già avuti seguaci illustri e altri ne avrà in futuro. Penso a Roquentin, protagonista de La Nausea di Jean Paul Sartre, quando esprime la sensazione, più epidermica che intellettuale, dell’assurdità dell’esistenza.
Si può pensare anche a Milan Kundera e alla sua opera L’insostenibile leggerezza dell’essere, quella “gratuità dell’essere”, difficile da vivere giorno per giorno.

* L’autore di questo articolo nel 2021 ha ricevuto il Premio Franz Kafka Italia, giunto alla XXI edizione, per il suo romanzo dedicato a Ottla Kafka, Kafka ad Auschwitz e l’inganno della libertà

Immagine di apertura: fonte: cultura-aumentata.com

Toscano, laureato in Scienze dell'educazione all'Università di Urbino, giornalista fin dal 1975, ha lavorato alla "Nazione" per molti anni ed è stato Direttore dei fogli culturali "Fabbrica e cultura" e "Artetoscana". Per decenni docente di Storia e Filosofia nei licei classici, ha pubblicato vari libri. Fra questi, "Stragi naziste sotto la Linea Gotica: Sant'Anna di Stazzema e Marzabotto (Mursia, 2004), "La resistenza nell'area tosco-emiliana" (1943-45) edito nel 2018 dalla Regione Toscana. Autore di poesie, nel 2020 ha vinto il Premio "Città di Sarzana" con la lirica "Oh, presto, usciamo dalla guerra!" e il Premio "Rocco Carbone" con la raccolta "Come voce di mare sullo scoglio"; nel 2022 il Premio "Lord Byron Porto Venere Golfo dei Poeti", con la raccolta di epigrammi in poesia sulla vita dei poeti Alighieri, Calvalcanti, Rimbaud, Keats, Leopardi ed altri.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.