Milano 23 Gennaio 2021
Sky lo manderà in onda dal 27 gennaio, giorno della Memoria. Memoria che è l’anima di questo film di Vadim Perelman, regista ucraino di origini ebraiche, applaudito allo scorso festival di Berlino. Perché l’originalità di Lezioni di persiano, distribuito da Academy Two, è di saper creare un affascinante corto circuito tra la memoria della storia e la memoria dell’individuo, la cui forza può incidere su quella della storia stessa.
A sperimentarlo sulla sua pelle è Gilles (il formidabile Nahuel Pérez Biscayart), uno dei tanti ebrei catturati dai nazisti nella Francia occupata del 1942. Deportato con altri in un campo di transito in Germania, durante il viaggio accetta di scambiare il suo panino con un libro sui miti della Persia che un compagno di sventura gli offre come un tesoro. E un tesoro si rivela davvero. Quel testo esotico diventa la sua ancora di salvezza: nell’estremo tentativo di salvarsi la pelle, Gilles giura di non essere ebreo ma persiano, di chiamarsi Reza, come lo sconosciuto dedicatario del libro. Ma anche questo non conterebbe poi molto, se uno degli SS già pronti a farlo fuori non si ricordasse all’ultimo della strana richiesta del suo superiore, il tenente Koch (Lars Eidinger), che, valendosi delle sue prerogative di responsabile delle cucine del campo, ha promesso una ricca dose di scatolette di carne a chi gli scovasse un persiano.
Secondo baratto salvifico. Davanti a Koch, che vuole imparare il farsi perché, a guerra finita, sogna di raggiungere il fratello a Teheran e aprire un ristorante, Gilles gioca il tutto per tutto. Se la sua unica chance per sopravvivere è insegnare la lingua persiana a quell’ufficiale, lui gliela insegnerà. E se non conosce neanche una parola, se le inventerà. Tanto, vista la generale ignoranza in materia, nessuno potrà smentirlo. Koch ha ben chiaro in testa come procedere: basterà imparare quattro vocaboli al giorno, e nell’arco di un paio d’anni avrà la padronanza di quelle duemila parole sufficienti per cavarsela in un Paese straniero.
Esercizi di memoria a cui dovrà per primo sottoporsi Gilles-Reza. Anche per lui ogni parola coniata è una parola sconosciuta, da mandare a memoria per costruire un debito vocabolario. Se le prime se le inventa di sana pianta, via via non sa più come andare avanti. Ma la soluzione ce l’ha sotto gli occhi: gli elenchi dei deportati che l’ufficiale gli ha dato da ricopiare. Basterà trasformare le finali di ogni cognome in un nuovo lemma, e il gioco è fatto. Quel che ne esce è un linguaggio bislacco, dalle mille assonanze. «Che lingua meravigliosa» si lascia sfuggire un giorno Koch, entusiasta. Quando tutto sarà finito, all’ufficiale americano che nel tentativo di ricostruire l’identità dei prigionieri del campo gli chiede se ricorda qualche nome delle 2840 vittime, Gilles risponde che sì, li rammenta tutti. La lingua immaginaria da lui creata su quei nomi, su quei volti, gli torna in mente, gli permette di elencarli uno per uno, preservandone la memoria, rendendoli immortali.
Il racconto di Wolfgang Kohlhaase da cui il film è tratto, pare sia ispirato a una storia vera. Se anche non lo fosse, di certo la storia è verosimile. I racconti dei sopravvissuti dall’orrore nazista sono pieni di vicende simili. Per provare sfuggire alla morte, alle torture, alla persecuzione dei nazisti, occorreva coraggio, fantasia, prontezza di spirito. E fortuna tanta. La lezione di Gilles, il paradosso della menzogna salvifica, del falso che si fa vero, della creatività che può vincere la brutalità, si muove sull’esile crinale della follia e della saggezza. Una favola assurda con un lieto fine amaro. Quella lingua costruita sui morti, pietosamente ricomposta da un sopravvissuto, si fa intendere ancora da chiunque abbia orecchie. Memento dell’odio di ieri, antidoto a quello di oggi.
Immagine di apertura: una scena del film Lezioni di persiano, del regista Vadim Perelman