Milano 28 Novembre 2022

Edipo: al protagonista della tragedia di Sofocle Max Ernst, pittore, scultore e teorico dell’arte tedesco, naturalizzato americano e francese, dedica nel 1922 un’opera che è tra le principali chiavi d’accesso al suo universo caleidoscopico e al suo ingegno multiforme. Ed è proprio il dipinto Oedipus Rex a fare da prologo alla mostra su Ernst in corso al Palazzo Reale di Milano (fino al 26 febbraio), curata da Martina Mazzotta e Jürgen Pech e prodotta da Comune di Milano-Cultura e da Palazzo Reale con Electa, in collaborazione con Madeinart.
Ernst giunge a Edipo percorrendo varie strade: la via della Filologia Classica, studiata all’Università di Bonn, quella della psicoanalisi, della poesia – Oedipus Rex ha dietro di sé un collage di Ernst per L’invention di Paul Éluard –, la via della “tragedia dello sguardo”, che l’artista tedesco trovò nell’amatissimo de Chirico, infine, la via dell’enigma e del sogno.
Edipo è l’emblema di chi riconosce che i soli occhi non bastano a vedere fino in fondo e conoscere. Ernst ha dunque individuato nel personaggio sofocleo, cui tornerà più avanti (Oedipus I, 1960, scultura in bronzo annerito), l’archetipo della necessità, dolorosa eppure catartica, di affrancarsi da una vista che è cecità per giungere finalmente a vedere, a liberare la visione e l’ispirazione.

Max Ernst, “Oedipus Rex”, 1922, olio su tela, Collezione privata, Svizzera

Osservando Oedipus Rex si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un’opera di teatro onirico con personaggi, natura e architetture sfuggenti, inquietanti, volutamente fuori scala. Il nostro sguardo di spettatori (non troppo diverso da quello dell’artista che, per Ernst, è il proto-spettatore) viene colpito anzitutto dagli elementi più macroscopici: le grandi dita di una mano che spuntano da una finestra e, trafitte da uno strumento metallico simile ad un arco, stringono una noce attraversata da una freccia; una coppia di teste di animali, una femminile d’uccello, una maschile di toro (e qui è impossibile non pensare alla pittura di Savinio). Ernst spinge il nostro sguardo a farsi penetrante e ad andare oltre: seguiamo così il sottile filo nero che lega le corna taurine a un punto alto nel cielo, intuibile ma non visibile; ci immergiamo nell’enigmatico conflitto cromatico del cielo; restiamo sospesi in aria, ipnotizzati da una piccola mongolfiera che, sì, è una mongolfiera ma è anche una macchia, pronta a cadere e contaminare (il contagio è tema inscindibile da Edipo).
Senza dubbio quindi Oedipus Rex è un preludio illuminante per l’arte di Ernst, attraversata e alimentata da associazioni imprevedibili, generatrici di meraviglia, e segnata dallo scardinamento di prospettive dominanti; un’arte che considera la «visione interiore» una «fonte inesauribile di immagini, una modalità di fruirne che si rivela nella fase del dormiveglia, come nello stato di cecità o nelle visionarie connessioni messe in atto dai bambini, dai malati cronici, dai medium» scrive Martina Mazzotta, curatrice della mostra insieme a Jürgen Pech e autrice del saggio all’interno del catalogo, pubblicato da Electa. Ma l’arte del pittore dalla lunga vita (1891-1976) esplora molti altri percorsi che la mostra di Palazzo Reale restituisce in modo capillare.

Max Ernst, “Gli uomini non sapranno nulla”, 1923, olio su tela, Tate Modern, Londra

Le centinaia di opere – dipinti, collages, incisioni, sculture, foto, disegni –, distribuite nelle nove sale di un allestimento scandito dal coinvolgente motivo “ernstiano” della finestra, restituiscono a pieno la poliedricità e la trasversalità di temi, stili e tecniche di questo artista del XX secolo: un artista rivoluzionario, aperto a sperimentare, Ernst il surrealista ma anche Ernst oltre il surrealista, tanto contemporaneo quanto antico e simile ad un artista rinascimentale. Tra queste opere, i lavori con tecniche innovative come il frottage, il procedimento adottato dall’artista dal 1925 che consiste nello strofinare con la matita un foglio di carta appoggiato su una superficie rigida con il proposito di produrre “disegni automatici” e il grattage, ovvero il grattare con vari strumenti la pittura ancora fresca sulla tela e su altri materiali.
È sempre bene non svelare il finale e questo vale anche per una mostra, ma va almeno detto che l’ultima sala dell’esposizione, incentrata sulle “cosmo-crittografie”, dove opere, libri e cinema introducono alle straordinarie scritture segrete dell’artista, a quelle crittografie che si spingono oltre i linguaggi codificati, genera nel visitatore stupore e sconcerto. E se nulla di più sveleremo di questa, vogliamo dire invece qualcosa sulla sala precedente. Il titolo del pannello che la introduce recita: Memoria e meraviglia. Memoria è parola che sospinge di nuovo verso i Greci.

Max Ernst, “La festa a Seillans”, 1964, olio su tela, Centre Pompidou, Parigi, Museo Nazionale di Arte Moderna

Mnemosyne torna come meravigliosa ossessione negli Inni di Friedrich Hölderlin che Ernst illustrò in modo sorprendente (1961), e che si possono vedere in mostra. Nell’ottava sala la memoria è presentata anche come «antidoto essenziale all’oblio» e «strumento per il riscatto di personaggi che hanno contribuito al progresso dell’umanità e che rischiano di venire dimenticati». In essa due opere legate a una memoria che è universale catturano l’attenzione più di altre: L’angelo del focolare del 1937 (vedi l’immagine di apertura), dipinto nello stesso anno di Guernica di Picasso, e L’anno 1939, eseguita con la tecnica del dripping (che consiste nel versare i colori direttamente dal tubo o dal barattolo su una tela disposta per terra) perfezionata da Pollock.
Anche se L’angelo fu dipinto da Ernst su ispirazione della guerra civile spagnola, la mostruosa e simbolica creatura ibrida che giganteggia nel quadro di Ernst sembra preconizzare i mortiferi passi della Seconda Guerra Mondiale. Come tutte le guerre, fin dal primo conflitto della cultura occidentale cantato da Omero, senza vincitori né vinti.

Immagine di apertura: Max Ernst, L’angelo del focolare, 1937, olio su tela, Collezione privata, Svizzera

Nata a Milano, ha vissuto ad Ascoli Piceno fino alla maturità classica. È poi tornata nel capoluogo lombardo. Archeologa classica, storica e critica dell’arte, studiosa di teatro. Laureata in Lettere Classiche all'università Cattolica di Milano, ha conseguito il diploma di Specializzazione in Archeologia Classica e il Dottorato di Ricerca in Archeologia, dopo il quale ha vinto borse di studio e un assegno di ricerca. Ha svolto attività didattica universitaria a contratto, partecipato a progetti di ricerca, convegni nazionali e internazionali, ad allestimenti di mostre, a progetti di valorizzazione di beni archeologici. Le sue ricerche e pubblicazioni riguardano soprattutto l’architettura teatrale, l’iconografia e iconologia teatrale e musicale, la ricezione dell’arte e della letteratura antica. Si occupa di cultura visuale, di teatro contemporaneo e dei suoi spazi. Tra le molte pubblicazioni: “Antigone. Usi e abusi di un mito dal V secolo a.C. alla contemporaneità”, 2021, volume curato con Sotera Fornaro; “L’immagine fuggente. Riflessioni teatrali sulla Alcesti di Barcellona”, 2020; i saggi “Raffaello e Omero (da Urbino alla Stanza della Segnatura)”; “Gruppo di famiglia in un interno. L’assassinio di Agamennone nel cratere del Pittore della Dokimasia”; “I teatri romani in Lombardia. Archeologia e valorizzazione”; il catalogo della Mostra, da lei curata nel 2011, “Suoni silenti. Immagini e strumenti musicali del Civico Museo Archeologico di Milano”. È nel comitato scientifico delle riviste "Archivi delle emozioni. Ricerche sulle componenti emotive nella letteratura, nell’arte, nella cultura materiale" e "Visioni del tragico. La tragedia greca sulla scena del XXI secolo", e nel gruppo di ricerca dell’omonimo blog culturale.

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