Milano 27 Gennaio 2023
Se amate i film di Polanski non perdetevi Hometown. Perché questo documentario, avvincente e terribile racconta molto, anche più di quel che dice, sulle origini del cinema del grande regista, che nella sua carriera ha conquistato ogni coppa che conta, a Cannes, Berlino, Venezia, più un Oscar, un Golden Globe, otto César… Premio dopo premio, incubo dopo incubo. Angosciosi e ricorrenti in ogni capolavoro, da Il coltello nell’acqua a L’inquilino del terzo piano, da Rosemary’s Baby al recente L’ufficiale e la spia. Un affascinante groviglio di nevrosi, allucinazioni, sensi di colpa, che qui svelano le loro radici, sempre avvinte dall’impagabile tocco di humor di Roman, surreale e spiazzante.

Per fare un paragone con un altro titolo di fresca uscita, si potrebbe dire che Hometown sta a Polanski come Fabelmans sta a Spielberg. Due giganti del cinema che, arrivati in un’età che sarebbe la terza o la quarta per chiunque tranne che per loro, decidono di riaprire i cassetti della memoria. Per quanto scomoda e dolorosa possa essere. E così se il regista americano, 76 anni compiuti lo scorso 18 dicembre, svela oscuri segreti di famiglia attraverso i poteri magici di una cinepresa, il polacco, che il 18 agosto prossimo di anni ne farà 90, ma non ci crederesti neanche a vedere la sua carta d’identità, torna sui suoi passi, a Cracovia. La città della sua infanzia e giovinezza, del ghetto dove, come gli altri ebrei – 70mila prima della guerra – , si ritrova murato vivo, la madre morta a Auschwitz, il padre sopravvissuto a Mauthausen, gli amici che scompaiono, il filo spinato da cui, piccolino di età e statura, riesce a sgusciare, trovando rifugio da dei contadini capaci di pietà.
Da quei tempi barbari sono passati più di settant’anni. Ma ogni istantanea resta viva nella mente di Polanski. Come in quella di chi gli cammina a fianco, Ryszard Horowitz, 83 anni, fotografo famoso, pioniere degli effetti speciali del cinema, anche lui arrivato fin lì per ripercorrere le antiche strade “dove ogni pietra ricorda qualcosa”. Ryszard (sarà un caso che il compagno di strada si chiami come il padre di Polanski?) era un altro bambino del ghetto, deportato con tutta la famiglia a Auschwitz, salvato con tutta la famiglia perché finiti nella lista di Schindler, la cui storia verrà raccontata mezzo secolo dopo proprio da Spielberg in un film magistrale.

Così, accettando l’invito di due documentaristi polacchi, Mateusz Kudla e Anna Kokoska Romer, i vecchi amici di allora, strana coppia davvero – Ryszard un omone robusto, Roman uno scricciolo saltellante, naso a punta, capelli a spazzola spavaldamente bianchi – si inoltrano tra vicoli e piazze dipanando il gomitolo dei ricordi. Qui c’era la casa di uno, là quella dell’altro, le scale sono rimaste, dentro tutto è cambiato. Lì, la scuola dove il professor Licht li faceva cantare in coro canzoni su Stalin in ebraico e il bidello terribile che agitava forsennatamente la campanella alle otto del mattino. «Correvo sempre» ricorda Roman che, appena poteva, bigiava volentieri per andare alla sua vera scuola di vita, il cinema. Nella piccola sala dell’Apollo dove aveva visto e rivisto Biancaneve. «E potrei guardarlo all’infinito» assicura. Horowitz gli indica la sinagoga dove andava con la famiglia in un quartiere noto per essere a “luci rosse”. «Così quando qualcuno diceva: è andato a Miodowa, tutti si davano di gomito». Roman non ci ha mai messo piede. «Non ero pio e neanche i miei genitori, le chiese e le sinagoghe mi fanno paura» confessa. I luoghi restano, tutto il resto è cambiato. Cracovia ormai «somiglia a Disneyland, del passato è rimasto quasi nulla, solo i fantasmi». Tanto vale andarli a trovare. Polanski vuol mettere una candela sulla tomba del padre, ma quando è lì non resiste alla tentazione di raccontare all’amico la storia del funerale.

Morto a Parigi, suo padre aveva chiesto di venir sepolto in patria. «E per questo genere di viaggi esisteva una sola agenzia, le pompe funebri Bongo». Bongo?! Bongo come la canzone di Caterina Valente “Oh baiao Bongo, Oh baiao Bongo…” Viaggio rocambolesco, con la bara incastrata nella stiva, l’arrivo in cimitero, i becchini ubriachi, Roman che con altri amici, tra cui il regista Wajda, si mette la cassa sulle spalle ma essendo il più basso, tutto il peso scivola su di lui facendolo traballare. Una scena esilarante, la disperata vitalità della risata per esorcizzare il dolore e l’orrore. «Ne abbiamo passate tante, non insieme ma in parallelo» commenta Ryszard. «Sarebbe stato meglio se la mia vita fosse andata diversamente… Tutti hanno problemi ma non hanno il pesante fardello che ho dovuto portare io per tutta la vita» aggiunge Roman.

I ricordi possono essere terribili, ma lui non ne vuole cancellare nessuno. «Devono restare nella memoria come sono, non li voglio deformare. È per questo che non voglio fare un film su quel periodo a Cracovia. Sono ricordi importanti per me e questa visita li sta un po’ offuscando, ma sarebbe peggio se facessi un film. Dovessi rifare tutto artificialmente non rimarrebbe più nulla nella mia memoria». Il film, prodotto da Èliseo entertainment di Luca Barbareschi con KRK Film in collaborazione con Vision Distribution e Sky, si conclude con una domanda. “La domanda”. «Se ti chiedessero se vuoi rivivere la tua vita esattamente come l’hai vissuta, cosa risponderesti?» chiede Ryszard all’amico. E Polanski: «Che vorrei nascere alle Hawaii».
Immagine di apertura: Roman Polanski, 89 anni, in una scena del documentario