Milano 27 Gennaio 2022
Finalmente! È proprio il caso di dirlo, per dare un immediato e giusto riconoscimento alla sorprendente mostra Realismo magico. Uno stile italiano, allestita al Palazzo Reale di Milano fino al 27 febbraio, curata da Gabriella Belli e Valerio Terraroli, promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e 24 Ore Cultura-Gruppo 24 Ore, che ha pubblicato anche l’importante catalogo.

Sovrastato storicamente, ma non certo artisticamente, da Novecento (la corrente del “ritorno all’ordine” dopo il Futurismo e lontana da espressionismo e astrazione, che, attraverso l’opera critica di Margherita Sarfatti, diede a tanti artisti la possibilità di “convivere” con il regime fascista), il Realismo magico – che mai si è raggruppato in modo organico – era rimasto finora in un cantuccio, nonostante l’opera di un gallerista illuminato, Emilio Bertonati, morto prematuramente nel 1981, che per primo aveva riacceso l’interesse nei suoi confronti. La sua strepitosa collezione è al centro di questa mostra, presentata integralmente, assieme ad importanti prestiti per un totale di oltre 80 opere.
Nel breve periodo, che i curatori fanno andare dal 1920 al 1935, molti artisti entrarono a pieno titolo in questa “non corrente”, ispirandosi soprattutto alla grande pittura italiana del Quattrocento e trovando punti di contatto (sottolineati dall’esposizione) con la Nuova oggettività tedesca. Fu proprio in Germania il critico Franz Roh a usare per primo la definizione Realismo Magico.

Attraverso queste due parole contradditorie in apparenza, sono passate (chi fuggevolmente, chi per un periodo più lungo) le creazioni di pittori destinati a trovare poi anche altre vie, come Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Felice Casorati, Gino Severini, Achille Funi, Ubaldo Oppi, Mario ed Edita Broglio, perfino Mario Sironi, fino ad arrivare a Cagnaccio di San Pietro (pseudonimo di Natalino Bentivoglio Scarpa) e Antonio Donghi, decisamente più refrattari al regime, che portarono avanti quello stile anche negli anni successivi, utilizzando modelli proletari – non graditi al fascismo – piuttosto che eroici.
C’è una parola, «inquietudine», che si staglia netta nella celebre definizione che il critico e scrittore Massimo Bontempelli diede di Realismo Magico, sostanzialmente una modalità espressiva: «Precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta…».

Ed è proprio questa inquietudine il concetto che unisce il percorso espositivo all’emozione e al sentimento di chi, da visitatore, segue lo snodarsi sulle pareti, come scrivono i curatori, «di una pittura sapiente, immacolata, algida, oggettiva, ma intrisa di mistero e ambiguità».
Aleggia sempre qualcosa di attonito, nei personaggi e nelle cose, è come se venga mostrato un attimo capitale, quello in cui si è compreso il senso di tutto ma non si fa in tempo a comunicarlo: un effetto straniante, che colpisce anche nei ritratti, dove l’idea base dell’oggettività porta verso una soggettività non risolta, con la presenza di un non detto (o meglio, un non dipinto). Certi ritratti di Casorati, come Silvana Cenni, Doppio ritratto, Cesarina Gualino, Cynthia, Raja, come anche il celebre L’allieva di Sironi, sono difficili da “sopportare” tutti insieme alla vista. Non è facile da spiegare, è come se comunicassero una rivelazione senza rivelarla davvero, qualcosa di esoterico: si rimane estasiati, colpiti, emozionati, ma anche “offesi” per quel non detto, che inevitabilmente ci porteremo dietro uscendo dalla mostra, almeno per un bel po’.

Ed è ciò che accade pure, o forse soprattutto, con Bambini che giocano di Cagnaccio (pseudonimo di Natalino Bentivoglio Scarpa, un artista cui la mostra dà finalmente il posto di rilievo che merita), con i soggetti che esprimono infanzia e maturità, ambedue irrisolte, mentre i loro giochi sono bloccati, nonostante l’apparente movimento. E gli altri ritratti di bambini, senza età e senza vera innocenza, dello stesso autore sono l’emblema dell’inquietudine che la mostra emana.
Appare, quindi, logico che la più celebre opera di Cagnaccio, Dopo l’orgia, sia diventata il logo della mostra. Ispirata a Meriggio di Casorati, propone un eros che sa di morte, ancor più di decadenza morale e fisica, con i nudi femminili in disposizione geometrica e i segni di una presenza maschile, non ufficiale e nascosta, a far da squallido contraltare.

Un realismo duro, ma con il costante elemento del tempo sospeso e del silenzio predominante. Un’opera che aveva anche un significato politico: bastò il simbolo del partito fascista su un polsino abbandonato in terra per impedire che la tela fosse ammessa alla Biennale del 1928.
Immagine di apertura: Mario Sironi, L’allieva, 1924, olio su tela, Collezione Etro (Foto Manusardi, Milano)